lunedì 27 gennaio 2014

Aumento tesseramenti, svincolo e Ius Soli: l'arretratezza del calcio italiano

Articolo di DARIO FALCINI tratto da " Il Fatto Quotidiano"

Calcio giovanile, l’Italia è un Paese per vecchi: triplicate le spese per tesseramenti

“Avete depauperato il mondo dilettantistico che rappresenta la vera vocazione dello sport”. E’ questo il passaggio in cui la lettera delle società lombarde alla Figc da una contestazione diventa un j’accuse. E’ ottobre quando oltre mille club inviano a Roma la loro protesta per “l’immane rincaro del costo dei tesseramenti dei giocatori”. In una notte di fine estate le iscrizioni dei giocatori ai campionati giovanili subiscono impennate fino al 250%. In un colpo solo e con effetto retroattivo sul campionato iniziato. Il tariffario è questo: l’iscrizione ai piccoli amici (5­-8 anni) passa da 3 a 10,60 euro, quella a pulcini e esordienti (9-­12 anni) da 9,50 a 19,31 euro, a giovanissimi e allievi (13-­15 anni) da 15,50 euro a 19,31 euro. Gli aumenti, spiegano le istituzioni del pallone, sono dovuti alla stipula di una nuova tutela assicurativa. Le società subito si ribellano.
Vivono grazie al volontariato e hanno fonti di guadagno limitate o nulle: non se la sentono di chiedere di questi tempi un altro sacrificio alle famiglie. Capofila della protesta è la Lombardia. Le società parlano di furto e minacciano di ritirare l’iscrizione e passare alle federazioni concorrenti come il Csi o l’Uisp. Trovano una sponda nella federazione regionale che si fa portavoce della loro protesta a Roma. “Ci sono genitori che già pagano 4­500 euro ogni anno -­ spiega Giuseppe Brunetti, vicepresidente Figc della Lombardia – Non condividiamo e contestiamo la tempistica. La decisione andava condivisa e ben ponderata, invece hanno applicato i rincari in fretta e furia”. Nello stesso tempo diventa obbligatorio assicurare i dirigenti accompagnatori che stanno a bordo campo. Un esborso in più per le società.
Nel lungo elenco delle compagini firmatarie della missiva di protesta figura anche la Varesina di Venegono Superiore. Pierangelo Farinazzo è il responsabile del settore giovanile, che vanta oltre 300 iscritti: “Per i cartellini quest’anno abbiamo pagato circa il doppio rispetto a un anno fa” spiega. Abbiamo preferito non aumentare le rette, ma abbiamo dovuto chiedere alle famiglie di pagarsi l’assicurazione”. Dalla Lombardia la protesta ha raggiunto il Piemonte. “Noi siamo una realtà di provincia eppure le spese sono alte” ­ racconta Titti Paravati, dirigente della Crevolese­. “Ci diamo da fare e risparmiamo su tutto, ma se continuano così le piccole società come noi dovranno chiudere”.  Ha un’idea diversa Carlo Tavecchio, da 15 anni alla guida della Lega nazionale dilettanti, l’organismo che organizza i campionati fino alla Serie D. “I costi maggiori sono dovuti alle nuove, migliori, tutele assicurative – spiega -. La comunicazione, però, è sicuramente avvenuta tardi”.  Per Tavecchio le società dilettantistiche non hanno problemi a pagare i cartellini, piuttosto pesano sui conti “i rimborsi spesa di alcuni calciatori nel tentativo di scimmiottare il calcio professionistico”.
LO SVINCOLO­­­­­­­­­­­­­­­­­­­ DEI GIOVANI CALCIATORI
Il portafogli non è l’unico problema con cui convive il calcio dilettantistico oggi e lo scontro non è solo tra le società e le istituzioni del pallone. Sullo svincolo il dibattito va avanti da anni senza mai arrivare a una soluzione. Da regolamento un calciatore rimane tesserato per una squadra dilettantistica dai 15 ai 25 anni e non può andarsene senza il permesso della società. Più volte la questione è finita nelle aule dei tribunali. Stiamo parlando, nella maggioranza dei casi, di giovani e giovanissimi che giocano per passione e che non di rado sono stati costretti a smettere perché, in rotta con un club, non sono stati liberati dal contratto. Carriere più o meno promettenti sono state interrotte per l’ostruzionismo di qualche dirigente. Fino a arrivare all’aberrazione di ragazzi che pagano la propria squadra per tornare in possesso del cartellino.

Un passo in avanti è stato fatto: fino al 2002 il vincolo era a vita, ma sono in molti a pensare che sia tempo di eliminare questo legaccio. Qualche scappatoia esiste, come l’articolo 108 del regolamento, ma prevede una consensualità tra l’atleta e la società. “In questa situazione siamo solo noi e la Grecia” dice Damiano Tommasi. Ex di Roma e nazionale, è il presidente dell’Associazione italiana calciatori. La sua battaglia contro il vincolo va avanti da tempo: “E’ un limite alla libertà dei ragazzi e delle ragazze, perché riguarda anche il calcio femminile – aggiunge­ – E’ una norma discutibile che genera storture e spinge i giovani a mollare l’attività, andrebbe del tutto eliminata. Purtroppo a qualcuno va bene così”. La resistenza arriva dai presidenti delle società, per cui verrebbe meno una fonte di introiti rilevante. “Si rischia di far saltare i settori giovanili e favorire solo i professionisti”, sostengono. Il semaforo rosso alla proposta di Tommasi arriva anche da Carlo Tavecchio presidente della Lega dilettanti: “Si deve esprimere il Coni, il vincolo riguarda tante federazioni, non si può agire unilateralmente”. Alla domanda se lui, personalmente, sarebbe per l’eliminazione Tavecchio non risponde.
LA QUESTIONE IUS SOLI­­­­­­­­­­­­­
“E’ tempo di introdurre lo ius soli nello sport italiano”. Il testimonial d’eccezione, il ct della nazionale Cesare Prandelli, per ora non è riuscito a smuovere le istituzioni calcistiche. Alcune discipline hanno fatto da sè: il cricket e l’hockey su prato considerano italiani a tutti gli effetti i giocatori di origine straniera nati in Italia. Boxe e atletica studiano modifiche ai loro regolamenti. A giugno la Figc ha approvato nuove norme che liberalizzano il tesseramento degli stranieri nei campionati minori e li equiparano agli italiani. Ma il problema è sempre lo stesso: lo ius sanguinis, la norma sulla cittadinanza che, a differenza di altri paesi europei, non include i figli di migranti nati sul nostro territorio. Per giocare serve il permesso di soggiorno in regola. “Oggi i giovani di seconda generazione preferiscono praticare altri sport. Il pallone non concede possibilità di ascesa sociale”­ dice Mauro Valeri, direttore dell’Osservatorio sul razzismo nel calcio­, secondo cui “la burocrazia disincentiva e a volte impedisce l’accesso al campo ai ragazzi”.
Alla base di tutto ci sono le direttive internazionali per impedire la tratta di minori, la legge italiana ha fatto il resto. “Qualcuno dà un’interpretazione restrittiva delle normative europee ­ prosegue ­ altri dicono di volere tutelare il vivaio italiano, infine ci sono gli aspetti economici. A rimetterci sono giovani nati e cresciuti qui”. “Non so se siamo pronti per un cambiamento, ma so che è necessario – dice Damiano Tommasi – Bisogna offrire una soluzione a tutti quei ragazzini che dopo una lunga trafila trovano la porta chiusa”. Anche Carlo Tavecchio, numero uno della Lega Dilettanti si dice “favorevolissimo” allo ius soli. “Come si può dire a un adolescente che non può giocare? ­- si domanda ­- Solo in Lombardia sono più di 100mila i minori che giocano a calcio e molti di loro sono stranieri. Chissà quanti non possono più farlo per via dei documenti. La mia speranza è che le cose cambino. Subito, entro il prossimo anno”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/26/calcio-giovanile-litalia-e-un-paese-per-vecchi-triplicate-le-spese-per-tesseramenti/842779/

sabato 18 gennaio 2014

I tre no dell'Hajduk Spalato

Articolo di Andrea Luchetta, preso dal settimanale ET della Gazzetta Dello Sport

L'HAJDUK DICE ADDIO ALL'ULTIMO PARTIGIANO

"L'ultimo campione dell'Europa libera se ne è andato a fine Dicembre, pochi giorni prima di compiere 90 anni. Hrvoje Culic, una vita fra il cielo e il mare della sua Spalato, era rimasto da solo a custodire la memoria di una delle squadre più straordinarie del Novecento. Solo, un pò come lo era in campo, lui portiere di quell'Hajduk che seppe trasformarsi nella squadra della Resistenza europea. "Tutto ebbe inizio nel 1941, quando i dirigenti del club pronunciarono il primo dei tre NO" racconta il giornalista Aleksandar Holiga. Spalato era stata appena annessa all'Italia. In un incontro con le autorità fasciste, i dirigenti dell'Hjduk rifiutarono di eseguire il saluto romano, prima di respingere l'offerta di giocare in Serie A se avessero cambiato il nome in AC Spalato. Pochi giorni dopo il governatore Bastianini dichiarò fuori legge tutte le squadre della città. I dirigenti dell'Hajduk nascosero tutti i trofei nella pasticceria di Ante Kesic, difensore degli anni venti. Frane Matosic, il miglior giocatore nella storia del club, fu costretto a trasferirsi al Bologna -si racconta -dietro minaccia di internare la famiglia. Dopo l'8 Settembre si precipitò a raggiungere ilfratello Jozo nell'esercito di Tito.

Crollata l'Italia fascista, Spalato era finita sotto il controllo degli utascia nazionalisti. Per i dirigenti dell'Hajduk poco cambiava: no avevano detto a Mussolini e no risposero a Pavelic. Organizzarono delle carovane clandestine fra le montagne per scovare giocatori. In poche settimane radunarono i migliori e ne organizzarono lo sbarco sull'isola di Lissa, quartier generale delle forze titine. Li soffriva Hrvoje Culic, così malato da non riuscire ad alzarsi dal letto. Lo ritrovò Jozo Matosic, che pur di arruolarlo contribuì ai massaggi di cui Hrvoje aveva bisogno. Il 7 Maggio 1944 venne officiata la rinascita del club alla presenza di ufficiali titini e britannici, fra cui anche Randolph Churchill, figlio di Winston. Tempo di oliare i meccanismi con un paio di amichevoli, e l'Hajduk si lanciò nella tournée che impegnò fino al termine della guerra. La squadra si trasferì a Bari, dove sfidò in una serie di partite le forze alleate. La più memorabile il 23 Settembre di fronte a 40 mila spettatori. La formazione dell'esercito britannico era quasi una nazionale: finì 7-2 per la corona (2-2 al 45'), complice un crollo fisico dei croati minati dalla febbre per le notti all'addiaccio . La rivincita si tenne a Spalato: 1-0 per l'Hajduk e quel gol restò il preferito di Frane Matosic fra i 729 in maglia bianca. 


L'Hajduk a quel punto era molto, ma molto più che un club: gli aerei alleati lanciavano quintali di volantini per esortare gli atleti dei paesi sotto occupazione a seguire l'esempio degli hajducki. La tournée proseguì in Africa e in Asia: a Beirut, dopo aver sconfitto l'esercito francese, , l'Hajduk venne proclamato "squadra della Francia libera" dal generale De Gaulle. Ma fu sul suolo jugoslavo che piovve la prova più difficile: conquistato dalle imprese del club, il maresciallo Tito propose di trasferirlo a Belgrado, associandolo perennemente all'esercito. Giocatori e dirigenti dissero no per la terza volta: erano dalmati - testardi come i pirati che infestavano l'Adriatico in epoca romana - e dalmati volevano restare. Per Culic, Matosic, l'allenatore Kaliterna e il resto della compagnia fu forse la decisione più difficile di una vita in direzione ostinata e contraria. Scelsero di restare fedeli al nome dell'Hajduk, che nella mitologia slava indica i fuorilegge alla Robin Hood  impegnati a combattere contro il potere. E Tito per consolarsi al suo posto fondò il Partizan  che, ironia della sorte, ebbe tra i suoi primi presidenti Franjo Tudjman, campione poi negli anni novanta del nazionalismo croato."