martedì 21 aprile 2015

Nel calcio, aboliamo la parola PROGETTO!!!


ARTICOLO PRESO DA:
http://carotenuto.blogautore.repubblica.it/2015/04/13/il-progetto-nel-calcio-e-una-bugia/#more-2444
di Angelo Carotenuto


IL PROGETTO NEL CALCIO E' UNA BUGIA

"Deciderò il mio futuro in base al progetto che mi verrà sottoposto", così dice Sinisa Mihajlovic, barcamenandosi fra chi lo corteggia. Milan e Napoli con più insistenza.
Progetto. Questa parola non è nuova. Ma soprattutto: non è vera.

È l'abuso linguistico che più spesso il calcio impone. Un progetto implica un tempo. Solo che tempo nel calcio non ce n'è. Un progetto esige fatica e la messa in conto di un arretramento momentaneo. Il progetto nello sport è pazienza. Nella sua scalata da 5 metri e 85 fino a 6,14 Sergej Bubka impiegò dieci anni. Tre li trascorse per passare da 6,06 a 6,07, saltando nel frattempo misure inferiori. Tre anni per un centimetro. Quando si è con un piede nell’eccellenza, gli ultimi passi sono i più difficili. Non è un fallimento fermarsi a 6 metri se prima hai fatto 6,06. Anzi. È fisiologico. Non è scontato migliorarsi di un centimetro alla volta in ciascun salto. Questo significa accettare un progetto. Avere una visione a lungo termine. Per quattro anni Ferguson al Manchester non vinse niente, il primo successo in campionato arrivò al settimo anno, quando si dice che i rapporti vadano in crisi. Nell’ultimo quindicennio l’unico allenatore capace di resistere sette anni sulla stessa panchina in serie A è stato Ancelotti al Milan, 2001-2009. Ora il più longevo è Mandorlini a Verona, 4 anni e mezzo, che per i nostri standard già non sono pochi.

Cosa sia un progetto oggi nel calcio italiano non si sa. Al Milan ne avevano uno per Seedorf. Portava il timbro convinto di Berlusconi, agli occhi del quale Seedorf aveva tutto: competenza, appartenenza e physique du rôle. È saltato in meno di cinque mesi, il progetto è durato tutto il girone di ritorno, durante il quale peraltro il Milan fece un punto in meno della terza in classifica. "Ho in testa un nome nuovo", diceva già a maggio Berlusconi. Non un nome e basta, ovviamente un nome e un progetto. Inzaghi. Che viene accolto così. “È scatenato, è affamato, è carico”. Contratto biennale. Nel frattempo, stretto tra le visioni differenti di Galliani e dei Berlusconi, ottavo sul campo, anche il progetto Pippo è vapore acqueo.  Più o meno lo stesso destino del povero Mazzarri, accolto all’Inter con l’incenso che Milano garantisce alla sua parte e scaricato nello stesso arco di tempo che un Borussia Dortmund concede a Klopp solo per guardarsi attorno e capire dove sia arrivato: in due anni, dal 2008 al 2010, ha avuto la libertà di fare sesto e quinto posto. Poi ha cominciato a vincere.

Uno può credere che una certa confusione regni là dove amministrano più teste. Galliani-Berlusconi, Moratti-Thohir. Sbagliato. Basta guardare Napoli, dove la monocrazia alla guida del club è solida. Pure là c'era un progetto. Internazionale, affascinante, ambizioso. Rafa Benitez. Un uomo che dieci anni fa vinceva la Coppa dei Campioni mentre il Napoli giocava i playoff di serie C. Chi lo avrebbe detto. Benitez si è presentato portando con sé acquisti che senza di lui Napoli non avrebbe concluso, tra cui il centravanti dell'Argentina e altri due calciatori che hanno scelto di lasciare il Real Madrid (il-Real-Madrid). In due stagioni, con un calcio spregiudicato (4 giocatori offensivi puri) che punta a privilegiare la qualità e spesso diverte, Benitez ha messo insieme un po’ di traguardi: 1) un posto fra le prime tre, obiettivo che in 89 anni di vita il Napoli aveva raggiunto 15 volte; 2) la qualificazione alla Champions giocandone nel frattempo una (mai successo a Napoli); 3) un girone di Champions con 4 vittorie su 6 (Arsenal, Borussia, Marsiglia le avversarie); una Coppa Italia; una Supercoppa italiana che il Napoli non vinceva da 25 anni; una qualificazione ai quarti di finale di una coppa europea che Napoli non otteneva da 26 anni. È un idolo? Macché. Ha fallito. I tifosi napoletani volevano 'o scudetto. Lo volevano peraltro con una squadra contestata già ad agosto, dopo l'uscita ai preliminari a Bilbao, perché il mercato non veniva giudicato sufficiente. Un paradosso. Pretendere lo scudetto da una squadra incompleta. A Napoli lo scudetto non l'hanno vinto Sallustro, Vinicio, Sivori, Altafini, Zoff, Savoldi. Volendo, non l’ha vinto nemmeno Maradona: lo ha mancato per cinque anni su sette. Però doveva vincerlo Benitez. In due anni. In un club che non è proprietario nemmeno del campo dove si allena e dove le giovanili ogni anno girano la Campania per cercarsi una casa più o meno fissa.

Non basta crescere, rafforzarsi al vertice, saltare sempre 6 metri. Il calcio tempo non ne ha. Non sa aspettare tre anni per un centimetro. Però parla volentieri di progetti, come ci ricorda Mihajlovic, sveglio navigatore delle panchine, cinque squadre diverse in sette anni, due esoneri, migliore stagione della carriera: questa. Forse la verità sta tutta nella definizione che della parola “progetto” dà il dizionario Garzanti: "Ideazione di un lavoro, di un’attività; anche, proposito vago, fantastico, difficilmente realizzabile". Un progetto. Adesso sì.

GRAZIE A F.M.

mercoledì 8 aprile 2015

Di Bartolomei, capitano triste della Roma dello scudetto, nasceva 60 anni fa


Articolo di Diego Mariottini, tratto dal sito della Gazzetta dello Sport

http://www.gazzetta.it/Calcio/Serie-A/Roma/08-04-2015/di-bartolomei-capitano-triste-roma-scudetto-nasceva-60-anni-fa-110377756974.shtml



A Tor Marancia, zona popolare di Roma Sud, ricordano ancora un ragazzo poco incline al sorriso, silenzioso ma tosto e determinato. Con una grande passione che ne divorava i pensieri e le scelte. Amava il calcio sopra ogni cosa e voleva migliorarsi continuamente. Sapeva di avere un talento, ma che a certi livelli il talento non basta più. Non che in campo fosse particolarmente veloce, ma potente con la palla tra i piedi, senz’altro sì. All’oratorio di padre Guido nella chiesa di San Filippo Neri c’è ancora qualche segno delle sue sventole su punizione. Parlava poco, in effetti, Agostino Di Bartolomei, ma quando c’era da agire era sempre il primo a farsi sotto. Era nato l’8 aprile 1955 e oggi compirebbe 60 anni. “Ago” o “Diba” che dir si voglia rimane a tutt’oggi per i tifosi romanisti un’icona con tanti punti di sospensione. Punti che la sua morte non ha aiutato a rimuovere.
DI POCHE PAROLE — Personaggio amato ma mai compreso fino in fondo, stimato ma non abbastanza elevato a esempio positivo. Coccolato dalla curva ma lasciato andar via con troppa facilità. Eppure Ago è un pezzo importante, fondamentale, di quella Roma che negli anni Ottanta si impone come una nuova forza nel panorama nazionale. Non è un personaggio mondano come Falcao, non è un eroe nazionalpopolare come Bruno Conti, ma per i tifosi della Sud una sua parola è quasi vangelo. Anche perché lui parole non ne spreca di certo, dunque va ascoltato, perché se parla significa che ha qualcosa da dire. La sua storia calcistica inizia nell’Omi, la squadra di Tor Marancia. La Garbatella è a due passi e anche quello a buon bisogno è un derby. A centrocampo gioca un ragazzo con l’aria di un uomo. Gli altri scalpitano per dimostrare il proprio valore, lui non ha fretta. Predica gioco pulito, lineare e verticale ed è il punto focale di tutte le trame di gioco. Sono quasi tutti ragazzini del 1955, eppure Agostino, con il suo atteggiamento serio e protettivo, sembra il padre dei suoi coetanei.
ADOCCHIATO DAL MILAN — La sua destinazione naturale dovrebbe essere la Roma, ma di chiaro e lineare nel calcio c’è ben poco. Infatti i primi a fare un pensierino serio su un tredicenne di grande prospettiva sono quelli del Milan. Ma il ragazzo è troppo giovane per lasciare casa e famiglia, dunque non rimane che la squadra giallorossa. Sono i primi anni Settanta, Di Bartolomei è cresciuto nel fisico e nella testa, ma la sua ambizione è sempre la stessa: vivere con il pallone, vivere di pallone. E le soddisfazioni arrivano, perché non ha ancora 18 anni e già ha vinto due campionati primavera (1972-1973 e 1973-1974). Ai piani alti le sue prestazioni non passano inosservate. Il tecnico della Roma Manlio Scopigno crede in quel centrocampista potente e ancora in fase di maturazione. Ci crede tanto da farlo esordire in Serie A. È il 22 aprile 1973.
DEBUTTO A SAN SIRO — Entrare in un campo di Serie A per la prima volta assoluta, farlo in un tempio del calcio come San Siro e affrontare l’Inter di Boninsegna, Mazzola e Corso spaventerebbe chiunque. Non lui. È uno dei pochi che cerca di ravvivare una scialba partita di fine stagione, forse – sostengono i maligni - perfino pilotata nello 0-0 finale. Promosso a pieni voti per la stagione successiva. Nel campionato 1973/1974 Di Bartolomei va in gol alla prima giornata, la vittima è il Bologna allenato da Bruno Pesaola. Poi sembra fare un passo indietro, costretto a fare la spola tra le giovanili e la prima squadra. Il talento c’è e proprio perché c’è, nessuno vuole bruciare un ragazzo capace di associare estro, umiltà, consapevolezza nei propri mezzi, spirito di sacrificio e intelligenza tattica. Non sarà un dispensatore di sorrisi, quel ragazzo, ma il gioco che propone manifesta la gioia di essere lì, di fare ciò che si ama fare.
MEGLIO UN GOL CHE PARARE QUELLE BOMBE — La palla circola, corre, gli attaccanti sanno di poter contare sui suggerimenti del faro di centrocampo. Senza tralasciare il fatto che punizioni di quella potenza e di quella precisione in Italia le tirano in pochi. Molti portieri in quegli anni pensano che, dovendo scegliere, forse è meglio subire un gol che beccarsi una pallonata di quel genere. E hanno ragione, in fondo è un fatto di autoconservazione. La stagione 1975/1976 Agostino la passa lontano da casa. Viene mandato a Vicenza in prestito e in fondo lui fa bene ad accettare. Per la Roma quello è un annus horribilis: viene scongiurata la retrocessione in B soltanto a fine stagione. Con il Vicenza fa un anno da titolare, 33 presenze e 4 gol. Ma la Capitale lo aspetta e per otto stagioni Agostino Di Bartolomei sarà il fulcro di una Roma non più squadra da bassa classifica ma protagonista assoluta grazie alla gestione del presidente Dino Viola. Fulcro sì, ma non soltanto del centrocampo.
LO SCUDETTO — L’anno dello scudetto giallorosso (1982/1983) il tecnico svedese Nils Liedholm ha un’intuizione enorme: se ben supportato, Ago può giocare al centro della difesa. D’accordo, non sarà un fulmine di guerra, ma per recuperare palla c’è Vierchowod. Con i lanci lunghi del capitano e con il suo senso geometrico del gioco, l’azione parte molto prima. Senza contare che le sue punizioni fruttano ogni anno quei sei-sette gol che a fine stagione fanno la differenza. In quegli anni si dibatte sul nucleare e sulle scelte che l’Italia dovrà compiere su un tema così delicato. In una manifestazione antinuclearista un ragazzo inventa uno striscione «Le sole bombe che vorrei sono quelle di Di Bartolomei». Anche chi non tifa Roma è perfettamente d’accordo. Con la squadra giallorossa Ago gioca 308 partite (di cui 146 con la fascia al braccio), segnando 66 volte. Lo scudetto del 1983 è la gioia più grande.
ARRIVA ERIKSSON — La delusione più cocente è la finale di Coppa dei Campioni dell’anno successivo, persa ai rigori contro il Liverpool. “Non è sconfitta”, titolano i giornali all’indomani di quell’insuccesso. “Di Ba” è persona troppo intelligente per accettare una consolazione così “alla buona”. È una sconfitta eccome, per giunta subita nel proprio stadio. Troppo intelligente ma anche troppo sensibile, dietro quella scorza musona di apparente impassibilità. Soffre molto, l’anno dopo, quando arriva il nuovo tecnico Sven Goran Eriksson. Lo svedese considera Agostino un giocatore ottimo ma lento per il suo tipo di gioco e lo mette nella lista dei partenti. Una singolare contraddizione per uno che anni più tardi lancerà al centro della difesa un giocatore di centrocampo con caratteristiche abbastanza simili a quelle del capitano giallorosso: Sinisa Mihajlovic.
APPRODO AL MILAN — Ago fa le valige e a malincuore va a Milano, sponda rossonera. Con il Milan gioca per tre stagioni, segnando tra l'altro anche un gol nel derby milanese, senza però vincere trofei. Raggiunge una finale di Coppa Italia nell'anno del debutto, persa contro la Sampdoria di Roberto Mancini. Quando il berlusconismo irrompe sulla scena calcistica, l’ex capitano giallorosso ha superato la trentina e, a Sacchi, Ago non risulta utile. La sua ultima stagione in serie A è quella del 1987/1988, con la maglia del Cesena: 25 presenze, quattro gol e la squadra romagnola si salva. La mente del centrocampo cesenate ha 33 anni ma una capacità di calcio come la sua da quelle parti l’hanno vista di rado. Conclude la carriera in Serie C nel 1990, dopo due annate con la Salernitana. Nell'ultima da professionista contribuisce al raggiungimento della storica promozione dei campani in serie B dopo 23 anni d'assenza, indossando anche in questo caso la fascia al braccio.
IL VUOTO DOPO IL CALCIO — Dopo avere chiuso con il calcio giocato per ogni ex scatta l’horror vacui nel pianificare il proprio futuro. È opinionista Rai, apre una scuola calcio a Castellabate (Salerno), dove si è trasferito con la famiglia. Si dice che a un certo punto si trovi in condizioni economiche precarie, si dice che il mondo del calcio gli abbia voltato le spalle. Si dice addirittura che sia vittima della depressione. Si dicono tante cose, chissà se sono vere. Del resto Ago non è uno che si apre con facilità. C’è un’unica cosa certa: una mattina di fine maggio 1994, 39 anni compiuti da poco, si trova in compagnia di Smith & Wesson senza essere né l’uno né l’altro. È soltanto Agostino Di Bartolomei, un uomo forse in preda a pensieri più grandi di lui e troppo cupi per essere sopportabili. La scelta che fa è una di quelle da cui indietro non si torna. È al suo pubblico che Ago non ha lasciato scelta.

martedì 7 aprile 2015

PAESAGGIO: la Casa


                                                                                                                           


Dirigendoci verso la porta avversaria immediatamente dopo al Giardino troviamo la Casa; chi conosce Massimo De Paoli (già allenatore nei settori giovanili di Inter e Brescia, ed ora dirigente delle rondinelle)  ed il suo concetto di  castello troverà delle similitudini: si tratta dello stesso spazio vuoto denominato in modo differente, perché differenti sono i paesaggi utilizzati. La Casa è quindi quello spazio vuoto compreso tra i centrocampisti ed i difensori avversari , è la porzione di campo dove mantenere il possesso della palla è più difficoltoso e questo a causa della sua strategicità: infatti è lo spazio dove solitamente agiscono i cosiddetti trequartisti, che proprio qui cercano spesso di smarcarsi per ricevere palla e puntare la difesa avversaria.
Inoltre, essendo  la zona più prossima al Cielo, tende ad essere uno spazio spesso piccolo ed angusto da attaccare, a causa degli avversari che sembrano spesso propensi a non permettere a nessuno di entrarvi; per essere attaccata nel modo giusto, la Casa deve essere allargata dai giocatori esterni che giocano sugli Alberi, e deve continuamente essere occupata ed immediatamente liberata sia dall’inserimento di qualche centrocampista, sia da qualche movimento incontro degli attaccanti (i cosiddetti movimenti sul corto).