venerdì 22 luglio 2016

Holly & Benji, trent’anni fa la prima puntata: ‘Il pallone è il nostro migliore amico’


Articolo di  Gabriele Anello per  Crampi Sportivi, rubrica de "Il Fatto Quotidiano"

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/19/holly-benji-trentanni-la-prima-puntata-il-pallone-e-il-nostro-migliore-amico/2918612/




"Ci sono alcune formazioni che sembrano filastrocche.

Sarti; Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola; Peirò, Suarez, Corso? La Grande Inter degli anni ’60.

Zoff; Collovati, Scirea, Gentile; Bergomi, Oriali, Tardelli, Cabrini; Bruno Conti, Graziani, Rossi? L’Italia Mundial dell’82.


E se io invece vi dicessi questa formazione? Wakabayashi; Soda, Mitsuyama, Jito, Ishizaki; Oozora, Misaki, Sawada, Sano; Nitta, Hyuga.

Se quest’undici non vi dice nulla, il merito dovete darlo a Reteitalia, che ordinò via Fininvest di cambiare i nomi giapponesi in qualcosa di “inglesizzante” (abitudine poi persa: Naruto non si chiama mica Gianni). A tutti gli effetti, però, parliamo della nazionale giapponese. E non di quella reale, bensì quella comparsa in “Holly & Benji”.

L’inizio

Oggi sono passati trent’anni dalla prima comparsa di “Holly & Benji, due fuoriclasse” sui nostri schermi: la prima puntata – rinominata “La grande sfida” – venne trasmessa il 19 luglio del 1986 su Italia 1.

Tutto parte da qualche momento all’inizio degli anni 80, quando la famiglia Oozora si trasferisce a Nankatsu (Fujisawa nella versione italiana). Al momento di partire, Tsubasa Oozora (Oliver Hutton) osserva un’immagine dell’Italia campione del Mondo nel 1982. Il padre Kodai è un capitano di una nave merci, mentre sono la madre Natsuko e lo stesso Tsubasa a cambiar casa e iniziare una nuova vita.

Al primo giorno nella nuova città (ispirata alla prefettura di Shizuoka), Tsubasa conosce Ryo Ishizaki (Bruce Harper), capitano della Nankatsu (Newppy), la squadra che le prende regolarmente dalla blasonata Shûtetsu FC (Saint Francis), capitanata dal prodigioso portiere Genzo Wakabayashi (Benji Price). I capitani dei vari club sportivi sfidano Genzo a parate impossibili pur di riottenere il campo su cui dovrebbero allenarsi, ma lui prende tutto e dimostra la sua superiorità. Solo l’arrivo di Tsubasa – insieme all’incontro con Roberto Hongo (Roberto Sedinho), ex campione brasiliano ritiratosi per un problema agli occhi – cambierà l’andazzo tra le due squadre e consentirà alla Nankatsu di sfidare la Shûtetsu ad armi pari.

Da lì, Takahashi svilupperà un mondo intero di personaggi, storie, dialoghi random, squadre, momenti che sono ormai stampati nella nostra testa. Ed è straordinario constatare come – a trent’anni di distanza – molti di questi siano ancora vivi nella memoria collettiva.

La spiegazione più convincente sul perché ci sia ancora quest’eco di fama l’ha data Giovanni Perversi, collaboratore dell’Istituto culturale italiano a Tokyo: «In Italia cresciamo giocando a calcio e molte delle giocate viste nel manga sono impossibili da copiare. Eppure, proprio per questo sono attraenti per molti di noi».

Legacy

Che cosa ci ha lasciato Captain Tsubasa, a trent’anni di distanza dalla sua prima comparsa italiana sul piccolo schermo? Sicuramente un sacco di traumi. Di sogni interrotti, di proiezioni verso l’impossibile per noi umani francamente impensabili.

Non è solo questo però. La conseguenza negativa – oltre alla nostra fantasia calcistica frustrata (no, non puoi fare il Tiger Shot di Mark Lenders) – è che quando vediamo il Giappone ai Mondiali facciamo sempre le stesse battute.

Ci sono però anche delle note positive. Giusto sei mesi fa, il Barcellona ha ospitato l’autore Takahashi al Camp Nou. Nel 2016, l’eco del suo lavoro viene ancora riconosciuto. Inoltre, non avete idea di quanti giocatori – persino di recente esplosione (es. Alexis Sanchez) – siano stati influenzati dall’immaginario creato da Yoichi Takahashi. Da quelli giapponesi a quelli italiani (su tutti Alessandro Del Piero), passando per Iniesta, Torres, Podolski e Neymar.

Anche i valori diffusi tramite il manga – quelli tipicamente nipponici, come l’amicizia, l’altruismo, la lealtà e il rispetto per l’avversario – hanno aiutato a formare un certo spirito calcistico in un paese che non ne aveva uno. E nonostante sia “solamente un cartone”, in Captain Tsubasa non c’è stata la paura di affrontare la morte, un tema delicato per le generazioni più giovani (vedi gli esempi di Julian Ross o quello meno trattato del preside della Furano).

Inoltre, il maggior merito di Captain Tsubasa è quello di aver “iniziato” il paese al calcio: nel 1981, il Giappone non era neanche lontanamente vicino a qualificarsi nemmeno per la Coppa d’Asia e una lega professionistica sarebbe arrivata solo 12 anni più tardi.

Captain Tsubasa è a oggi un patrimonio storico nel mondo dei manga giapponesi. Da questo manga, ne sono poi nati altri a sfondo calcistico (Inazuma Eleven, Giant Killinge il più recente Days). L’ultimo attestato di stima è arrivato nel 2014, quando a Yotsugi – quartiere di nascita dell’autore – è stato installato un piccolo percorso con statue di bronzo che raffigurano i più importanti personaggi di quest’opera.

A trent’anni di distanza dalla sua prima comparsa, io sogno ancora di essere Philip Callaghan. Magari il personaggio è diverso per ognuno di noi, ma sono sicuro che almeno una volta abbiamo tutti sognato di esser in quel mondo."

lunedì 11 luglio 2016

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Cruyff per il calcio è stato un inizio, dopo di lui tutto è cambiato



Non inventava, sceglieva soluzioni: le sue galoppate erano figlie del senso tattico. Pelé e Maradona erano compiuti, Cruyff è stato un inizio: apriva l'ignoto per la sua squadra
di Mario Sconcerti

Cruyff è stato il più grande calciatore moderno, fu anzi lui a inventare la modernità del calcio. Perché era un atleta vero, giocava sempre in verticale e gestiva il pallone in velocità come nessuno. Non è paragonabile a nessuno degli altri grandi giocatori del dopoguerra, Pelé, Maradona e Di Stefano. La differenza si coglie quasi a prima vista, Cruyff era l’unico europeo fra questi, per di più olandese, quindi colto e pragmatico. Mentre gli altri inventavano per mestiere, lui sceglieva le soluzioni sul campo. Quello che ne fa un giocatore quasi incredibile è il tempo in cui ha giocato, gli anni sessanta-settanta. Noi eravamo nel cuore del catenaccio nobile di Inter e Milan, sarebbe poi arrivata la Juve di Trapattoni. Cruyff giocava invece dove voleva e come voleva, sempre all’attacco, apparentemente senza pensieri tattici o di squadra. Ma le sue corse sul campo, i suoi dribbling rapidi e insistiti non erano mai delle prove di bravura. Cruyff aveva un senso privato dello spazio che i compagni conoscevano, tutte le sue celebri galoppate avevano un forte senso tattico, accorciavano improvvisamente il campo. Con lui le azioni da gol avvenivano in pochi secondi, come un eterno contropiede, fatto però nella metà campo degli altri.

Quel mezzo secondo

Cruyff non era uno scattista, era piuttosto un mezzofondista veloce. Aveva però la capacità di prendere sempre il tempo all’avversario, partiva mezzo secondo prima. In questo ricorda il Messi di oggi. Una volta in corsa era imprendibile, non dribblava più, continuava a rubare il tempo a tutti gli avversari che lo inseguivano.E quando non chiudeva in gol, dava palloni splendidi agli altri. Ci sono dei lanci in corsa d’esterno destro di quaranta metri che stupiscono ancora.

Pelé e Maradona compiuti, Cruyff sempre in divenire

Di Stefano fu l’ultimo grande giocatore di un calcio che veniva da prima della guerra. Pelé è stato forse il migliore ma è rimasto sconosciuto al grande pubblico, non si è mosso dal Brasile e ha giocato quando c’era ancora pochissima televisione. Non ha avuto i mezzi per propagandarsi. Maradona è stato un leader, forse il piede più morbido della storia del calcio. Ma non ha lasciato in eredità altro che il suo ricordo, il suo fantastico modo di essere un fuoriclasse. Cruyff è stato invece un inizio.

Non più un altro Cruyff, ma un altro calcio

Dopo di lui non c’è stato un altro Cruyff ma c’è stato un altro calcio. Le velocità è diventata il centro del gioco, l’intelligenza collettiva si è trasformata in un obbligo. È straordinario l’apporto che ha dato Cruyff a qualcosa a cui quasi non partecipava. Lui era uno straordinario anarchico, un ragazzo che gioca per strada, ma aveva dato un ordine, uno scopo alla propria anarchia. Doveva accorciare il campo, con la corsa o con i dribbling. Cruyff aveva più intelligenza che istinto, dava l’idea di voler saltare l’avversario, ma la massa di compagni che lo seguivano rendevano chiaro il suo ruolo di chiave. Cruyff apriva l’ignoto, la squadra vi entrava. Se dovessi fare una sintesi a caldo, ora che i ricordi tornano tutti insieme, direi che Cruyff era inferiore a Maradona come stretta qualità tecnica, ma non gli era inferiore nel complesso. Certamente non come attaccante.

Le 4 leggi del calcio
Molto lo ha aiutato la diversità del suo allenatore, Rinus Michels, l’uomo che inventò il calcio totale, il pressing nella metà campo avversaria, il gioco collettivo, il recupero del pallone immediato, le triangolazioni rapide e profonde, l’abbandono definitivo della difesa a uomo. Michels è stato alla base anche del Cruyff allenatore. In estrema sintesi le loro regole fisse erano quattro:
1) La marcatura a zona sempre attraverso l’attacco agli avversari, mai meno di tre uomini sul portatore di palla avversario.
2) Il pallone deve essere dato da un giocatore in movimento a un altro giocatore in movimento.
3) Il gioco deve sempre essere elegante perché senza eleganza c’è solo complessità.

4) Al centro del gioco deve sempre esserci l’uomo.

Cruyff e il ragazzino che diventerà suo erede

Sono le regole che hanno portato fino a noi il calcio di oggi. Leggete bene queste regole, vi accorgerete che molti allenatori passano ancora adesso per nuovi perché in qualche modo le applicano cinquant’anni dopo. A Barcellona Cruyff allenò un ragazzino che lo seguiva con gli occhi della mente. Si chiamava Guardiola e oggi è il suo erede.