lunedì 16 febbraio 2015

Siamo sicuri che l'importante è partecipare?


Articolo della dott.ssa ISABELLA GASPERINI preso da youcoatch.it

http://www.youcoach.it/it/articolo/vincere-fa-parte-della-nostra-natura



Quando i ragazzi passano dalla Scuola Calcio all'agonistica, credo che noi adulti dobbiamo aiutarli a trasformare molti aspetti del modo di scendere in campo per affrontare una partita. Perché tra i due settori sportivi il calcio cambia, inevitabilmente. È così, e a questa trasformazione bisogna adeguarsi.

Mentre nel contesto della Scuola Calcio sento dire spesso agli istruttori che l'importante non è vincere ma svolgere una buona prestazione e praticare un buon gioco al di là del risultato, a 13-14 anni, per una strana coincidenza, il calcio si fa più accanito e sembra colludere con le trasformazioni psicofisiche dell'adolescente che diviene, da questa età in poi, un vulcano sull'orlo di eruttare. Tempeste ormonali, conflitti interiori tra il desiderio di autonomia e il bisogno dell'affetto dei genitori si camuffano spesso dietro il suo essere burbero e ribelle. Analogamente a ciò, il calcio che lui pratica, diviene più agonistico. 
In questo modo lo sport si propone all'adolescente come un prezioso contesto dove poter canalizzare tutta la sua energia attraverso una via di sfogo adeguata: la voglia di vincere.Scendere in campo per vincere significa osare, mettersi in gioco in ogni caso, anche giocando male se si è particolarmente emozionati; giocare per vincere permette di buttare fuori più adrenalina, sudore e fiato. Scendere in campo per vincere significa rischiare di perdere, quindi acquisire spavalderia e coraggio di fronte ad un'avversità come la sconfitta, che le avversità svariate della vita le rappresenta tutte.

Dire ai ragazzi di scendere in campo per fare bella figura al di là del risultato non è altrettanto motivante. Lo vedo dall'esperienza in campo... Spesso percepisco che in ciò si nasconde una strategia inconscia del mister di affrontare la partita placando a priori il suo timore di essere criticato di fronte ad una possibile sconfitta. Mentre all'adolescente non fa male confrontarsi con la smania di vincere. L'adolescente si aspetta che un adulto lo esorti a vincere motivandolo a dare il massimo, così va evocata la vittoria!

Aspirare alla vittoria è una sfumatura di una carica motivazionale innata nell'essere umano. Freud parlava di istinto di vita, riferendosi a un aspetto di noi stessi volto a eruttare, come un vulcano, energia propositiva. In linea con ciò possiamo concepire la voglia di emergere, come quella forza che ti permette di ostinarti in qualcosa, come per esempio a nuotare per emergere dall'acqua e palpitare boccate valicando a forza l'orlo che delimita il mare dall'aria. Boccate di ossigeno che hai raggiunto con fatica e che ti fanno sentire vivo. È così che io sento la vittoria se la penso dentro di me, se cerco di sentirla mettendomi nei panni dei ragazzi quando esultano per un gol appena fatto.

E vincere diventa una sfida, dove si specchiano motivazioni ataviche che vanno oltre le nostre origini e affiorano dalla notte dei tempi, quando vincere rappresentava il risultato della temerarietà con cui si rimaneva vivi dopo una battaglia, con cui si affrontava la lotta per la sopravvivenza. La cosa grandiosa è che vincere è una delle possibilità, perché dove si ha la possibilità di vincere c'è anche la possibilità di perdere. È una medaglia con due facce. Esiste in quanto tale. Quel gusto amaro, a volte insopportabile, che prevede la sconfitta, è come un incubo dove si nuota, si nuota, e non si riesce a raggiungere l'orlo dell'acqua, ma in quanto tale risulta essere uno stimolo fondamentale per chi ha un animo vincente, perché gli consente di trovare la forza per poggiarrsi sulle proprie gambe e darsi la spinta necessaria per risalire. A meno che non si voglia rimanere lì.

In tutto ciò il mister è proprio colui che deve dare ai componenti della squadra la convinzione che la vittoria è una certezza in cui credere, anche se lui sa che potrebbe non essere così. Il mister deve motivare quell'animo vincente a credere in se stesso affinché, come dice Paulo Coelho, "l'universo cospiri verso ciò che vuoi". E la vittoria non risulta più l'obbiettivo, ma una conseguenza della convinzione di potercela fare.

Dott.ssa Isabella Gasperini

mercoledì 4 febbraio 2015

Omaggio a Valdano: LE UNDICI VIRTU' DEL LEADER

Ho appena finito di leggere il nuovo libro di Jorge Valdano, "Le undici virtù del leader", e probabilmente lo rileggerò altre 20/30 volte (a qualcuno basta una sola rilettura, ma sono abbastanza testardo...). E' calcio allo stato puro. Non ho le capacità per sintetizzarlo senza sciuparne la bellezza e la chiarezza, così ho deciso di farvelo introdurre direttamente da Gianni Mura (e scusate se è poco!). Signori fidatevi: E' UN CAPOLAVORO!!!!!!



"Sono sempre stato dalla parte dei sogni" dice Jorge Valdano. Lo so, avevo letto gli altri suoi libri, mi ero già preso il permesso di modificare Cartesio ("penso, dunque sogno") e credo che saremmo amici, con Jorge, se ci vedessimo un po' più spesso. Così, semplicemente e consapevolmente, di cuore e di testa, siamo due che stanno dalla stessa parte. Eppure mi sono accosato con una punta di diffidenza a questo libro. Forse per il titolo. La parola leader mi dà più allergia che allegria, viene usata molte volte a sproposito. La leadership è però innegabile: c'è nei consigli di amministrazione come nello spogliatoio di una squadra di calcio, c'è nella politica, nella moda, e credo anche in una gara di bocce tra pensionati esista un leader. Per esperienza, carisma, sicurezza, bravura, per un sacco di cose. C'è qualcuno più ascoltato di altri, un punto di riferimento nel bene e nel male.
Un eroe? No. Valdano cita Romain Rolland: "Eroi sono tutti coloro che fanno tutto quello che posono". In altre parole, uomini di buona volontà, potrebbe dire Papa Francesco, che sta dalla stessa parte di Valdano, non solo perché è nato in Argentina. "Contro la globalizzazione dell'indifferenza cerchiamo di vivere una solidarietà globale" ha detto Francesco. Bisogna allenare l'umiltà e avere la passione come motore, ha detto Valdano, sottolineando più volte che un leader senza etica non è un leader vero, credibile. Man mano che leggevo, la diffidenza si squagliava. Noi dello sport siamo abituati, da circa trent'anni, alle testimonianze di sportivi in sedi prestigiose. Che so, Arrigo Sacchi che parla alla Bocconi, Marcello Lippi alla Sapienza (cito a caso ma sempre sedi universistarie erano). Argomento: il gruppo vincente, come crearlo, come tenerlo unito, come motivarlo. Non solo calcio: anche Julio Velasco e Ratko Rudic, pallavolo e pallanuoto, hanno conosciuto lo stesso iter. Bastava guidare una squadra vincente e si era invitati a tracciare un parallelo con l'attività dei manager.
Più indietro nel tempo questo non accadeva. Forse perché quelli dello sport preferivano stare nel loro orticello, forse perché nessuno li convocava, forse perché i manager dovevano ancora essere inventati (o autoinventarsi) e comunque non avevano l'enorme rilievo che hanno oggi e, in generale, facevano meno danni, ma questo è un altro discorso. Il solito, vecchio discorso lo troverete sui giornali, lo ascolterete dalle tv: lo sport (il calcio, il ciclismo ecc.) come metafora della vita. Solo chi cade può risorgere, nulla si ottiene senza sacrifici, non c'è limite che non si possa superare, bisogna remare tutti quanti nella stessa direzione, mai sentirsi arrivati o appagati. Penso che lo sport non sia una metafora, ma un pezzo (per taluni importantissimo, per altri assai meno) della vita. Come l'amore, il dolore, gli affari, il lavoro.
Resta la considerazione che ai leader deve parlare un leader, uno che sa come si vince. Mai un secondo, un terzo, un penultimo. Valdano ha le carte in regola: nel calcio ha fatto di tutto, e piuttosto bene, tranne che il pallone e l'arbitro. L'ha fatto seguendo un percorso etico, sa di che cosa si parla. Non è così presuntuoso da stilare un decalogo: le virtù sono undici come i calciatori che compongono una squadra, come il numero che aveva sulla maglia quando giocava. Quando smise di fare il calciatore (campione del mondo, tra le varie cose) e aveva in mano le chiavi del Real Madrid, mandò un messaggio chiaro ai ragazzi delle giovanili: "Le porte della prima squadra non si aprono spingendole, ma sfondandole". Il succo è più o meno quello del famoso discorso di Steve Jobs a Stanford: "Stay hungry. Stay foolish".
Nel giro di pochi mesi quelle porte le sfondarono in dieci, tra cui Raul. E nel giro di pochi giorni, a Giugno, è svanita in Brasile l'immagine di una Nazionale italiana bella e solidale, in cui il ct Prandelli aveva varato un codice etico. E' bastata un'imprevista eliminazione (spediti a casa da Costarica e Uruguay) e la parola etica è stata sbertucciata. Il che, visti i tempi che stiamo attraversando, non stupisce. Dimissioni del ct e a ruota del presidente della Federcalcio. Lacerazioni tra il gruppo degli anziani e quello dei giovani. Tutto da rifare. Rimpianti sul gioco all'italiana (se lo fa l'Olanda, perché noi no?), su chi era stato chiamato ma era meglio non ci fosse, su chi non era stato chiamato ma era meglio che ci fosse, e il funerale all'etica azzurra si è mischiato a quello, concomitante, della Spagna e del suo gioco corto, impostato su criteri estetici. Una pacchia per gli adoratori del risultato, "la sola cosa che conta", perché "bisgna vincere a qualunque costo, non importa come".
Invece importa, Valdano lo ribadisce con forza. Una vittoria pulita e onesta vale più di una vittoria sporcata da fallacci, simulazioni o, peggio, corruzioni assortite. Valdano è per la strada larga, non per la scorciatoia.. Quelli che dicono "fa parte del gioco" quando un attaccante si tuffa per ottenere un rigore non hanno il diritto di indignarsi se girano mazzette per ottenere un appalto. Alla base c'è lo stesso aggiramento delle regole, la voglia di fregare i prossimo per tornaconto personale. Valdano sa che estetica ed etica sono dita della stessa mano, lo sa e lo dice.
Un calciatore che legge molto e scrive, e continua quando ha smesso di tirar calci al pallone, è un tipo sospetto, diciamo pure un sovversivo. E' in sintonia con i grandi sognatori (Menotti, Socrates), con i bravi allenatori che non si danno troppa importanza (Ancelotti). Non lo è con gli iperpragmatici, con i conductores alla Mourinho ("un personaggio fatto su misura per questi tempi rumorosi").
Non lesina citazione, da Kavafis a Bertand Russel. Porge vassoi con saporiti piatti di ricordi, di eperienze vissute. Non perde il filo del discorso. In apparenza è un uomo-contro, e in parte lo è: contro il calcio dei mercanti e degli affaristi, contro i bluff e i truffatori, gli sfruttatori e i cinici. Buono, pulito e giusto potrebbe intitolarsi il suo manifesto per un calcio migliore, non fosse già il titolo di un libro di Carlo Petrini (fondatore di Slow Food). Ma potremmo riflettere su uno Slow Food che non sia un calcio ai ritmi blandi, ma su tempi più umani, ragionevoli, non inquinati dal dio denaro, non gonfiati da un Barnum planetario che sa solo accelerare: nella costruzione e distruzione degli idoli, nella violazione delle regole e nella mancanza di rispetto per giudici e avversari che fa sempre comodo presentare come nemici. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, sono i morti ammazzati dal tifo, è il clima che si respira nei nostri stadi, nelle città blindate, nella sistematica demolizione della "domenica della brava gente". E' il nulla rivestito da lustrini: la nostra filosofia, il nostro progetto. Ma dove? E soprattutto, ma quando?
Jorge Valdano, dunque, è uomo-contro come tutti gli uomini-pro. Mi ripeto: è per il sogno contro i calcoli, per la bellezza contro il cinismo, per l'allegria contro la cupezza, per la generosità contro l'aridità, per il sentimento contro la robotizzazione, per la passione contro il business, per la musica contro il rumore. Perché lo so? Perché sto dalla stessa parte. E stando dalla stessa parte posso aggiungere che mi piace non solo quello che scrive, ma anche come lo scrive. Lo considero un ritrattista alla Pericoli. Fossi un editore, gli chiederei un intero volume con una serie di ritratti di giocatori (quindici-venti righe ognuno, al massimo, tipo "l'amaca" di Michele Serra). L'idea mi è venuta leggendo un altro che sta dalla nostra parte, Eduardo Galeano. Non essendo un editore, la butto lì, può sempre servire. 


Prefazione di Gianni Mura direttamente dal libro
"Le undici virtù del leader"
Isbn Edizioni, pag. 7-10