mercoledì 26 ottobre 2016

Il Professor Lele Adani


Articolo di Maurizio Caverzan preso da:

http://www.rivistaundici.com/2016/06/01/professor-adani/



Siccome il calcio contemporaneo rigetta i dogmi, se vuoi starci dentro seriamente non puoi mai finire di imparare. Allenatore diplomato a Coverciano, Daniele Adani è un quarantenne che accetta la sfida della complessità. Uno disposto ad ascoltare e con un tratto di umiltà nei modi. Un quarantenne che studia.

Un anno fa stupì molti per il no a Roberto Mancini che lo voleva suo vice alla guida dell’Inter. Optò per proseguire l’esperienza di opinionista televisivo. Commentatore e seconda voce nelle telecronache. C’erano la parola data e un progetto avviato con Sky da onorare. E c’era la consapevolezza del privilegio di raccontare e spiegare calcio a un pubblico qualificato. Non un ripiego, non una parentesi, non un dopolavoro in attesa della chiamata di qualche club per tornare in prima linea. «Un lavoro a tempo pieno. È una questione di incastri umani e professionali che si combinano in un certo modo. Mancini ha capito e ora siamo più amici di prima. Ma non è stata una scelta definitiva, tra quattro anni vedremo».

Oggi Adani è il più apprezzato commentatore di calcio in circolazione. Apprezzato da tecnici e giocatori, da giornalisti e colleghi. Apprezzato dai telespettatori. «Per uno che ama questo sport, la televisione è un punto di vista privilegiato. Preparandoti, lo vivi nella sua totalità. Segui la partita, il fatto agonistico, gli allenamenti, le abitudini dei calciatori, la tattica, la psicologia, il lavoro degli allenatori, le cose che dicono in conferenza stampa… C’è sempre qualcosa da approfondire, qualche talento da scoprire. Per questo dico che la curiosità è la prima dote. Il calcio non è fatto di verità assolute. L’unico suo dogma è non averne. Vale prima di tutto per me che pure ci sto dentro tutto il giorno. Anche se mi documento, se studio, non potendo essere tutta la settimana a bordo campo come un tecnico, mi mancherà sempre qualche informazione. E allora penso che devo andarci piano con i giudizi». Più controtendenza di così… «Il nostro ruolo ci fa stare sopra una collinetta a guardare in basso dove fischiano le pallottole. Se ti controlli un attimo puoi essere più analitico, più rispettoso della complessità di uno sport di squadra fatto da ventidue giocatori e un’infinità di variabili».

Giusto, quando si parla di tattica e di moduli di gioco, meglio essere prudenti. Ma se invece si fanno valutazioni tecniche, sulla qualità di un singolo calciatore, si vede se uno è scarso, un buon giocatore o un campione. O no? «Certo, ma a questo punto quello che fa la differenza sono i modi. Nella comunicazione la forma è sostanza. Si fa presto a dire che un giocatore non è da Inter o da Milan. Ma non è mai tutta la verità. Quando arrivò Mancini ci si chiedeva se Medel avrebbe resistito e ora ci si accorge che è il più presente. È l’assemblaggio che conta, la chimica tra i giocatori. A me piace riflettere. Preferisco documentarmi. Ascolto tutti, anche quelli con cui non sono d’accordo. Non c’è un parere più qualificato di altri a priori. Se proprio arrivo a dare un giudizio assoluto voglio farlo alla fine di uno studio approfondito. Solo così posso essere credibile».

Sintesi: certezze poche, studio tanto. Il calcio ha il motore sempre acceso, se rallenti sei finito. «A Coverciano ci insegnano che un giocatore si analizza attraverso quattro parametri: l’attitudine mentale, la tecnica, la tattica e le doti fisiche. Per me c’è anche il quinto elemento, che non dico sia il più importante, ma quasi: i tempi di gioco. Quelle quattro doti servono a niente se uno non ha i tempi giusti, se non si muove in sintonia con gli altri. È il tempo che fonde le caratteristiche di un giocatore. Un calciatore modesto ma con i tempi giusti può essere più utile di uno che ha più qualità ma va per conto proprio».

Un altro dei suoi segreti è Wyscout, la app creata da un gruppo di ragazzi di Chiavari che monitora tutto il calcio mondiale, grazie alla quale si tiene aggiornato sulle squadre sudamericane, di cui è esperto da quando le commentava per Sportitalia, e su quelle dell’Europa League. Una prateria sconfinata, con tutte quelle squadre finlandesi, turche, polacche. «Quando dicevo che questo è un lavoro a tempo pieno non scherzavo. Al mattino leggo i quotidiani, riguardo i filmati delle partite che ho registrato, mi informo sui risultati dei campionati e delle coppe sudamericane. Poi mi concentro sulle squadre di cui dovrò parlare nel prossimo turno di Europa League o per l’anticipo di Serie A. Una cosa che cerco subito è come una squadra propone in una fase e contiene nell’altra nelle ultime partite giocate. Vedo se ci sono corsi e ricorsi. Mi consulto con i coordinatori dei programmi per preparare dei focus su schemi e giocatori da mostrare in studio prima delle partite. Anche scrivere e prendere appunti mi aiuta a focalizzare come giocano le squadre e a ricordare mosse e contromosse degli allenatori».

Il rischio può essere prendere il calcio come ossessione. Una magnifica ossessione. Tanto più che per un outsider non dev’essere facile la convivenza in un team di opinionisti farcito di vincitori di Mondiali e Champions League. «Sono ben consapevole di essere in mezzo a calciatori blasonati. E ovviamente mi spiace non aver vinto quanto loro. Sono pieno di rispetto e ammirazione. Però poi, quando dobbiamo commentare le partite, quello che abbiamo fatto dieci o quindici anni fa è solo un piccolo bagaglio di esperienza per egli argomenti che sviluppiamo. Documentarsi, entrare nei contenuti, non è un compito per fuoriclasse e persone speciali, ma per persone normali. Pensare che chi ti ascolta si accontenta delle tue opinioni nate in base alle tue vittorie del passato è qualcosa di incompleto e anche un po’ presuntuoso. Se devi parlare del Bruges conta poco quante coppe hai vinto. Se devi commentare il Carpi di Castori e non sai quali sono i suoi schemi non ti basta avere la Champions in bacheca. A me piace fare il calcio che diventa show, non fare show parlando di calcio»

A volte viene anche il dubbio che il suo lavoro sia così meticoloso che persino gli allenatori fatichino a seguirlo. «Con gli allenatori ho un ottimo rapporto. Documentarmi è il mio modo di rispettare il loro lavoro. I tecnici capiscono se bluffi, se provi la frase a effetto».

E così eccoci a un’altra sintesi, “la formula delle tre c”: conoscenza, competenza, credibilità. Sembra l’algoritmo dell’analista. «Ma non c’è niente di garantito in questa formula, perché si può conoscere senza essere competenti e viceversa. E allora la credibilità è un miraggio». C’è qualcosa di sacchiano in Daniele Adani? Forse oggi potremmo dire che quello di Sacchi era un calcio algoritmico… «Certo, Sacchi ha cambiato radicalmente il calcio. Ma più che un approccio scientifico il mio è un buon matrimonio tra passione e applicazione. In questo senso, mi sento più vicino a Guardiola e a Bielsa. Secondo me, la passione abbinata all’applicazione generano l’intuizione e la genialità. Tanto lavoro durante la settimana, poi a venti minuti dalla fine il grande allenatore ha la scintilla e cambia la partita. Questa scintilla o ce l’hai o no. Non la puoi allenare».

La chiacchierata è finita. Ma si continua a parlare: della rimonta della Juventus, del Milan assortito male, di Mourinho, di mercato, della difesa dell’Inter e di Scolari che al mondiale brasiliano non convocò Miranda… Adani non si lesina. «Non dovevi andare via dopo un’ora?», gli ricorda qualcuno. «Ma no. Sono fatto così, anche al bar ascolto e parlo ad esaurimento. Sono sempre l’ultimo ad andare a casa. Quando si è finito di parlare di calcio».

lunedì 17 ottobre 2016

Perché togliere la gara?

Brano tratto dal libro "Il calcio dei ricchi" di Mario Sconcerti, Dalai editore



"Questo è un'altra delle cose che non capisco. A volte nelle scuole tolgono il senso della gara. Si gioca ma alla fine non vince nessuno perché si pensa che l'agonismo porti il Male. I ragazzi devono correre e giocare spensierati. Ma annullare il senso della gara tra ragazzi non è un vantaggio. Ha poco senso giocare senza tenere conto del risultato. E ha poco senso non fare gerarchie tra i ragazzi. E' un'offesa ai ragazzi stessi. Loro sanno chi sono i migliori anche se stanno fuori. Non bisogna insegnare il senso di una guerra, ma l'ordine si. Che giochino tutti, ma sapendo tutti cosa manca a noi e agli altri. Cosa abbiamo di più e di meno.
Ma sono disposti i genitori a questo giudizio? La scuola calcio dà il primo vero giudizio sulle doti naturali dei nostri figli. Fino ad allora li abbiamo tenuti caldi e coperti, ora vanno nel loro piccolo mondo da soli, confrontano i loro corpi con gli altri, le cose che pensano e che sanno fare. Come prenderla se non funzionano? E' un problema serio, non enorme, perché poi tutto avviene in modo naturale, ma comunque vero. (...) La gara ha sempre bisogno di un vincitore e di uno sconfitto. Dobbiamo essere bravi noi a far capire subito che le sconfitte non sono un disonore, fanno parte della vita e che comunque domani è sempre un altro giorno, un'altra gara. Giocare decine di partite senza vincere o senza perdere non diverte. E se non diverte, non insegna niente. Stiamo costruendo per i ragazzi una vita finta e un gioco insipido. Il bello del calcio è uscire stremati dai campi peggiori, sporchi, pieni di botte e magari battuti, ma pronti a giurare che la prossima volta sarà diversa. Da cosa proteggiamo i nostri figli impedendo loro di vincere o perdere una partita o conoscere il parere sincero del loro insegnante? O accettando che giochino comunque e sempre la parte di gara a cui hanno diritto PER AVER VERSATO LA LORO QUOTA? E' giusto partire con tutto il gruppo ma è giusto che le partite vere impongano scelte. E' giusto per i ragazzi. Lo sport insegna a vincere come a fare un passo indietro. Sono i ragazzi a pretendere queste scelte perché sono i primi che lo capiscono. E' negare il senso della sconfitta che crea disequilibrio."

giovedì 13 ottobre 2016

Le Progressioni: Daniele Grassetti


Post preso dal blog di Daniele Grassetti: 

https://lapallaerotonda.wordpress.com/2015/11/10/progressione-per-loccupazione-dello-spazio-parte-1/
I bambini del video sono i pulcini 2007 di Alessio Serafini

Nel blog potrete trovare tutta la progressione e tanti altri interessantissimi post!!

Progressione per l’occupazione dello spazio (parte 1)


Quando si parla di calcio e di metodologia di allenamento molto spesso si tende a sottolineare lo smarcamento, l’occupazione dello spazio e una serie di principi ad essi collegati. E’ logica comune pensare che un giocatore si debba muovere in funzione della palla, degli avversari e dei compagni e che capire quando e dove muoversi facciano poi la differenza. Così come l’abilità tecnica dunque, quella cognitiva risulta determinante.
Questa è la consapevolezza che ha spinto me e il mio amico e collega Alessio Serafini ad iniziare un percorso congiunto. Lui, grandissimo maestro di tecnica che unisce le linee guida del Coerver Coaching alle sue conoscenze e grandi capacità comunicative, ed io che invece mi sono negli anni specializzato nell’aspetto cognitivo del gioco del calcio, ovvero in quella capacità di studiare l’ambiente ed effettuare una scelta che sia la più efficace possibile per la squadra. Nel calcio di oggi un artista nel trattamento di palla che non sappia dove e quando muoversi risulta inutile al pari di uno che conosca gli spazi e non sappia fare uno stop o un passaggio, per cui la complementarità del lavoro ci è sembrata talmente evidente che non ci siamo persi in chiacchiere e abbiamo iniziato immediatamente a lavorare fin dai pulcini primo anno.
Il mio compito all’interno della scuola calcio Junior Del Conca è proprio quello di collaborare con gli allenatori delle tre annate pulcini al fine di proporre una progressione di esercitazioni che portino i bambini a riconoscere lo spazio e ad occuparlo in relazioni delle variabili che abbiamo già indicato. La durata della mia attività è di circa 20 minuti per gruppo, con cadenza di una volta alla settimana.
Il video che vedete in questo post rappresenta l’introduzione al concetto di rombo, quadrato o aquilone a seconda di come volete chiamarlo. In un momento precedente (di cui non abbiamo le riprese) ho fatto schierare i bambini in linee da 4 e mentre entravano nel quadrato ho dato loro un comando, ovvero una direzione in cui tutti dovevano andare. Le direzioni, a cui abbiamo associato 4 PAROLE CHIAVE sono “alto”, “basso”, “destra” e “sinistra”. All’inizio del video noterete che un bambino aggiunge la parole chiave “centro”, che infatti rappresenta un quinto spazio da occupare, ma che è stata trattata solo dopo aver dato tempo di metabolizzare le quattro direzioni.
Abbiamo proseguito l’esercitazione dividendo la linea di quattro in coppie per cui, al comando, due andavano sul lato comandato e gli altri due su quello opposto. Questo ci ha portato infine al gioco di occupazione degli spazi che vedete nel filmato, con una linea da cinque che entra nel quadrato e al comando occupa le cinque posizioni. Potete intuire come l’impatto cognitivo sia notevole, sia perché è richiesta attenzione sia perché una volta dentro il quadrato bisogna studiare l’ambiente circostante. Un ambiente fatto di alcune variabili come lo spazio (e quindi la percezione di se stessi all’interno del quadrato), i compagni e la loro direzione di corsa (che presuppone la capacità di anticipazione nel capire dove dirigersi). Se proverete ad effettuare il gioco qualche volta noterete come ci siano bambini dal talento naturale per la lettura dello spazio e altri che fanno più fatica, ma alla fine tutti arriveranno a comprendere come muoversi e lo faranno in tempi sempre minori. Noterete, anche guardando il video, come ci siano bambini che indicano ai compagni dove andare e altri che hanno già preso una posizione ma la liberano in favore di un compagno meglio posizionato e ne occupano un’altra.
Vi ricordo che stiamo parlando di pulcini primo anno, quindi di bambini di 8 anni. Non sono molto d’accordo con l’espressione comune che a quest’età si debba fare solo tecnica, esistono più aspetti del gioco che possono essere allenati. Pensate al filmato e a quanto scritto sopra, in un quarto d’ora abbiamo sollecitato:
  1. la loro attenzione
  2. la loro concentrazione (ovvero la capacità di protrarre l’attenzione)
  3. l’attitudine a guardare per capire
  4. la loro relazione con uno spazio
  5. la loro relazione con i compagni
  6. l’anticipazione
  7. il senso di leadership
  8. la comprensione di alcune parole chiave

giovedì 6 ottobre 2016

Qualcuno era Maradoniano




"Qualcuno era maradoniano perché aveva pagato mille lire solo per vederlo il 5 luglio 1984.

Qualcuno era maradoniano perché aveva i capelli ricci.
Qualcuno era maradoniano perché aveva perso tutti i capelli.
Qualcuno era maradoniano perché provava e riprovava in giardino a palleggiare come lui ma, a stento, ne faceva tre.
Qualcuno era maradoniano perché la Juventus, il Milan e l’Inter erano già quelle di adesso.
Qualcuno era maradoniano perché sembrava Abatantuono nano.
Qualcuno era maradoniano perché ti davano 100 figurine Panini per averlo.
Qualcuno era maradoniano perché solo con lui ti rendevi conto cosa volesse dire il termine rivalsa.
Qualcuno era maradoniano perché Platini era una Maria Antonietta con i calzettoni.
Qualcuno era maradoniano perché non cadeva mai, nemmeno di fronte alle ingiustizie.
Qualcuno era maradoniano perché ci vuole l’uomo dell’ultimo passaggio.
Qualcuno era maradoniano perché contro l’Inghilterra non si era mica capito che aveva segnato con la mano.
Qualcuno era maradoniano perché contro l’Inghilterra non si era mica capito come aveva segnato il secondo gol.
Qualcuno era maradoniano perché il lunedì era più felice.
Qualcuno era maradoniano perché Boniperti, Trapattoni e Agnelli erano simpatici come le emorroidi il 18 luglio.
Qualcuno era maradoniano perché del calcio me ne frego ma adoro il gesto atletico.
Qualcuno era maradoniano perché da ragazzo aveva tirato una punizione nel sette.
Qualcuno era maradoniano perché ha fatto vincere uno scudetto a Luciano Sola.
Qualcuno era maradoniano perché per la prima e unica volta nella vita aveva vinto.
Qualcuno era maradoniano perché grazie a lui aveva il caffè sospeso al bar.
Qualcuno era maradoniano perché Pelè non ha mai giocato in Europa.
Qualcuno era maradoniano perché il gol su punizione contro la Juve era un chiaro errore di chi ha montato il servizio.
Qualcuno era maradoniano perché se Ferlaino accattass’ due terzini buoni l’Intercontinentale non ce la leva nessuno.
Qualcuno era maradoniano perché nun jamm a nisciuna part cu sta squadr…. Gooool!!! To dicev’ je ca simm e megl’.
Qualcuno era maradoniano perché al fratello piaceva Antognoni.
Qualcuno era maradoniano perché non si sentiva più solo.
Qualcuno era maradoniano per sfizio, qualcuno per principio, qualcuno per imposizione paterna.
Qualcuno era maradoniano perché se no abbuscav’ a scol’
Qualcuno era maradoniano perché aveva abbuscat’ a scol’
Qualcuno era maradoniano perché nell’apoteosi dell’estremo atletico si ravvisa l’allure artistico del genio. Capito cosa intendo?
Qualcuno era maradoniano perché il sistema calcio vedeva i napoletani come una minoranza necessaria.
Qualcuno era maradoniano perché nel giorno del primo scudetto si è fatto la comunione.
Qualcuno era maradoniano perché Napoli deve cambiare.
Qualcuno era maradoniano perché Napoli va bene così com’è.
Qualcuno era maradoniano perché in pochi anni Pino Daniele, Massimo Troisi e Maradona nello stesso luogo.
Qualcuno era maradoniano perché nun se po’ semp aspettà diman’
Qualcuno era maradoniano perché l’incremento della vendita di magliette false sfiorava picchi colossali.
Qualcuno era maradoniano perché al Totonero aveva giocato 1 fisso.
Qualcuno era maradoniano perché Puzone, quello in basso a destra nella foto ufficiale, sembrava Nino D’Angelo.
Qualcuno era maradoniano perché Berlusconi aveva già la faccia di chi voleva fottersi tutti.
Qualcuno era maradoniano perché con la moneta di Bergamo la lira fu rivalutata in un attimo.
Qualcuno era maradoniano perché pensav’ ca murev’ e nun o verev’.
Qualcuno era maradoniano perché vivere a Napoli non è farlo a Torino, Milano, Perugia. Il silenzio e la paura ti fanno sentire un uomo peggiore.
Qualcuno era maradoniano perché una guerra di camorra è una guerra, per tutti.
Qualcuno era maradoniano perché credeva che per essere felice ci voleva qualcosa in più del semplice tirare a campare.
Perché arrangiarsi va bene ma chi dice che si vive d’espedienti ha il culo al caldo.
Perché siamo stati conquistati e sfruttati, controllati e fregati, ma non ci hanno mai convinto con la speranza del domani.
Sì, qualcuno era maradoniano perché non voleva che finisse mai quella magia, quella sensazione di essere migliore di come ti descrivono, migliore di quello che gli altri vogliono.

È adesso? Adesso che non c’è, che non possiamo più pensarlo vicino?

Siamo vedovi, abbandonati, o forse in un limbo vuoto, in un’assenza tiepida, un tepore ottuso.
Dal 17 marzo 1991 cerchiamo un approdo, una meta, un parametro.
Perché quella bellezza ci prende ancora alla gola e inizia a scendere, muovendosi come una vipera, sul cuore, tra i polmoni, nello stomaco, verso luoghi che non conosciamo e sentiamo soltanto addosso?
Come ricostruirci un futuro senza la bellezza? Chi ce la può dare, dove è andata finire?
La cerchiamo ovunque, tra le cose materiali coi soldi e le manfrine culturali con le idee. Ma nessuno più la tocca.
L’avevamo tra le mani, ogni giorno crescente, anche le sconfitte erano raggi di calore.
Adesso vinciamo ma è un perdere col sorriso, un essere comunque battuti da chi ci ha negato per secoli il volo.
Dobbiamo reinvantercela, dobbiamo reinventarcelo un nuovo Maradona.
Uno che slaccia il talento e gode con noi, uno che ti guarda e capisce quanto amore rimbalza, uno che si guarda le scarpe e sa di essere più importante per gli altri che per se stesso.

Uno così ci vuole. Per Napoli. Per noi."


Testo di Jvan Sica, preso dal sito:
http://letteraturasportiva.primosu.it/2013/05/qualcuno-era-maradoniano.html

mercoledì 5 ottobre 2016

Il 14 stupisce ancora


Articolo di Gianni Mura preso dal sito:
http://www.repubblica.it/sport/calcio/esteri/2016/10/05/news/cruyff_mura_barcellona_olanda_libro_biografia-149148945/?refresh_ce







Cruyff secondo Cruyff: memorie di un rivoluzionario del calcio
I trucchi del papà. I milioni gettati via. Le liti, i nemici, i trionfi con Ajax e Barcellona A sei mesi dalla morte l'autobiografia dell'olandese
di GIANNI MURA

CRUJIFF o Cruijff? Cruyff, è scritto in copertina dell'autobiografia del campione, scritta con Jaap de Groot e pubblicata da Bompiani: "La mia rivoluzione". Esce a circa sei mesi dalla morte, per cancro ai polmoni. E poco importa come si scrive il cognome: tutti sanno chi era. La copertina è color arancia, un colore che prima di lui, e di quelli della sua generazione, non era nel gotha del calcio. Ed è un grande risultato, lo pensava anche lui, che quella Nazionale olandese sia ricordata a tanta distanza dagli anni Settanta, quando arrivò due volte in finale del Mondiale e due volte la perse. Contro Germania e Argentina (ma nel 1978 Cruyff non c'era), le padrone di casa, ma per chiunque allora non fosse tedesco o argentino i veri vincitori, per come giocavano, erano gli arancioni. Perchi non avesse mai visto Cruyff in azione, valga il sintetico ritratto tracciato da Alfredo Di Stefano: "Non è un attaccante, ma fa tanti gol. Non è un difensore, ma non perde mai un contrasto. Non è un regista, ma gioca ogni pallone nell'interesse del compagno".
Il Pelé bianco, lo definì Gianni Brera, che pure non amava molto il calcio totale. "È una squadra-cicala", diceva dell'Olanda. Preferiva le squadre-formica, e infatti puntò sui tedeschi per la vittoria in finale. Ma di Cruyff c'era poco da criticare: sapeva essere cicala e formica, centravanti e terzino, una strano esemplare di individualista votato al collettivo: nell'Ajax, poi nel Barcellona, oltre che in maglia arancione. Era il più bravo di tutti ma aveva bisogno degli altri, perché nel calcio non si vince mai da soli. Ma era anche il ragazzo-prodigio, il direttore d'orchestra, quello che dava i tempi al padre del tiki-taka. Perché, ha sempre ammesso Pep Guardiola, quel modo di giocare, dai ragazzini della cantera fino alla prima squadra, l'ha pensato, voluto e imposto il Cruyff allenatore. Uno molto sicuro di sé, a volte anche troppo. Come quando buscò un pesantissimo 0-4 dall'incompleto Milan di Capello.
A questa partita sono dedicate nove righe in 234 pagine. Voglia di dimenticare, di guardare sempre in avanti, la stessa voglia che lo porta a trascurare od occuparsi di sfuggita anche dei successi (i tre Palloni d'oro, ad esempio). Il libro è bello per almeno due terzi, quando Cruyff racconta le sue famiglie, quella dignitosamente povera di Betondorf e quella formata sposando Danny Coster, figlia di Cor, uno dei maggiori commercianti di diamanti in Olanda. Il padre di Cruyff aveva un negozietto di frutta e verdura e un occhio di vetro. Sfidava i clienti a chi resistesse di più guardando il sole, si copriva con una mano l'occhio buono e intascava la scommessa. Era tifosissimo dell'Ajax e amico del custode del campo. Il padre muore quando Johan ha 12 anni, la madre sposa il custode del campo e quello che Johan chiamava zio Henk diventa il suo secondo padre. Inidoneo al servizio militare (piedi piatti) a 21 anni sposa Danny, e Cor gli fa da procuratore, segue i suoi affari. Nel 1968 si presenta ai dirigenti dell'Ajax per la firma del contratto affiancato dal suocero, la cui presenza non è gradita dai dirigenti. Pronta replica di Cruyff: "Voi siete in sei, perché io dovrei essere da solo?".
Quando Johan decide di fare a meno dei consigli di Coster non gli va bene: riesce a rimetterci sei milioni di dollari in un allevamento di maiali, ma non spiega come. Per rimpinguare la cassa andrà ai Los Angeles Aztecs. Per lui, dice, il denaro è secondario. "Ovviamente i soldi contano, sebbene non abbia mai visto un sacco di soldi segnare un gol. Può sembrare contraddittorio, ma io sono un idealista. Sono cresciuto nell'Ajax e, nonostante abbia lasciato il club tre volte in malo modo, ho sempre provato gioia per ogni sua vittoria. È un sentimento che ti entra nel sangue, difficile da definire ma bellissimo". Il club in malo modo lo lasciò la prima volta perché voleva la fascia da capitano, ma anche Keizer la voleva. Fu chiamato a votare l'intero spogliatoio, vinse Keizer e Cruyff partì per Barcellona. Di sfuggita, in Olanda pagava il 70 per cento di tasse, meno della metà in Spagna. In Catalogna, anzi. Perché tra i meriti di Cruyff non c'è solo la manita (5-0) al Bernabeu, quand'era arrivato da poco, ma anche la convinta adesione all'indipendentismo catalano. Chiamò suo figlio Jordi, non Jorge. Allenò la nazionale catalana. Ma soprattutto, e questo vale per gli innamorati del pallone al di là delle bandiere, interpretò un calcio basato sulla velocità, sulla tecnica, sull'interscambiabilità. Un calcio quasi sacrilego per gli italiani, abituati alla specializzazione in un ruolo, e solo quello. Un calcio quasi provocatorio per gli italiani abituati al ritiro pre e post partita, a volte entrambe le cose, tranne che con Scopigno ("A Cagliari si è in ritiro tutta la settimana"). Loro, in ritiro con mogli e fidanzate. Loro, a vederli fuori campo, capelli lunghi, basette come ussari, potevano sembrare un'allegra compagnia di squinternati appena usciti da un coffee shop. Vogliamo metterci anche un portiere con l'8 sulla schiena che giocava in posizione quasi da libero? Erano gli anni dei figli dei fiori, e quel calcio sembrava nato in una comune. Al potere non andava l'immaginazione ma un altro modo di giocare a calcio. Su tecnica e interscambiabilità Cruyff è d'accordo. Sulla velocità meno. "Non era un calcio dispendioso. Certo c'era da correre, ma era più importante correre bene che correre tanto". Da qui, spiegazione di un gioco basato su una serie di triangoli. Da qui il tiki taka.
In quella squadra, ricorda Cruyff, c'era la fascia destra, tutta gente seria: Suurbier, Neeskens, Swart. Da loro ti potevi aspettare un lavoro ben fatto. Sulla sinistra c'erano Krol, Muhren e Keizer, chiamati dai compagni "Tuttifrutti". Da loro ti potevi aspettare qualunque cosa. L'abilità innata di Cruyff stava nell'inserirsi di qua o di là, adattandosi alle caratteristiche, o anche al centro. Molti gol li ha realizzati in posizione da centravanti, pur non essendolo, pure avendo al Barça il 9 sulla schiena, ma solo perché il regolamento non permetteva il 14. Pur di non rinunciare a quel numero, Cruyff infilava una 9 sopra una 14.
Nel libro, enormi meriti sono riconosciuti a Michels, assai meno a Kovacs. Il primo, parere di Cruyff, aveva fatto crescere l'Ajax dicendo: "Adesso voi fate come dico
io". Con il secondo ("Esprimetevi liberamente") il vino prese ad andare in aceto, cominciarono le piccole gelosie, i mugugni di spogliatoio, insomma lo spegnersi del gruppo, l'inizio della fine. Meno interessante, ma era giusto trattarne, la parte che riguarda l'incompatibilità e le rotture del dirigente Cruyff con altri dirigenti. Con un fil rouge nel racconto: la ragione era sempre di Cruyff. Parola di Crujiff e di Cruijff.

martedì 4 ottobre 2016

Tanti auguri VALDANO!!!


 Di seguito alcune citazioni di Jorge Valdano estrapolate dal mio libro preferito (Il sogno di Futbolandia); è un omaggio personale ad uno dei più grandi "personaggi" calcistici di sempre che compie oggi 61 anni.




"C'era un tempo in cui sbagliare un passaggio significava molto, in senso negativo. Io ho iniziato la mia carriera professionistica a Rosario, città implacabile con i giocatori scarsi. In uno dei primi allenamenti, diedi la palla al Mono Oberti, vecchio idolo del Newell's, oltre che mio personale, ma il passaggio non fu particolarmente preciso. Il Mono non fece il minimo sforzo per raggiungere la palla, mi guardò come se mi stesse facendo un favore, e disse: «Ragazzino, sul piede! Altrimenti trovati un altro lavoro». Adesso quando un calciatore sbaglia l'appoggio di tre metri, il compagno lo applaude, per evitare che l'autore del passaggio si deprima."

"La prima volta che vidi giocare Ronaldo, passai tutta la partita a criticarlo invano. Si stringeva nelle spalle per decollare e si lanciava nell'avventura solitaria di fronteggiare i difensori. Ogni volta che toccava il pallone lo allontanava parecchio, troppo, dai suoi piedi, e io, che come ogni spettatore giocavo la mia partita per interposta persona, puntualmente mi lamentavo: «Porca miseria, se l'è allungata troppo». Sembrava che finisse fuori, e invece la raggiungeva; sembrava che fosse in vantaggio il difensore, invece arrivava prima lui; sembrava che fosse del portiere, invece era gol. Il problema è che io misuravo la sua velocità in termini umani e Ronaldo è un portento fisico che fa saltare tutte le previsioni di tempo e distanza." (p. 23)

"Romario è il calcio, perché il calcio è soprattutto inganno e nessuno inganna meglio di Romario. L'estetica della pigrizia, caratteristica inconfondibile del suo creativo padrone, non è altro che una maschera, perché durante il gioco, lui è menzogna che cammina. I movimenti lenti sono la corda di un arco che si tende per scoccare una freccia inattesa, improvvisa e letale. Freccia precisa per ogni bersaglio." (p. 26)

"Tifosi di tutti i quartieri tradivano le loro squadre del cuore per vedere quel genio [Diego Armando Maradona] per il quale un fazzoletto di terreno era più di un latifondo. Alcuni lo confusero con Dio, e quando sei poco più che un bambino non hai motivo di mettere in dubbio l'opinione dei grandi."
 (p. 30)


"[Su Ricardo Bochini] Come spiegarvelo? Era Woody Allen che giocava a calcio: un corpo insufficiente per qualsiasi cosa, la faccia tipica di un perdente, un talento pungente, veloce, immenso. Era come un ladro che ausculta una cassaforte inespugnabile mentre le sue dita tirano fuori il segreto della combinazione; fino a quando all'improvviso... clic. Sì, un pallone giocato da lui apriva tutti i catenacci difensivi. Gli bastava un tocco: clic." (p. 43)

"Verso la metà del secondo tempo, il gioco fu interrotto per un fallo senza importanza e Johan [Cruyff] si mise a protestare. Siccome l'arbitro non smetteva di dargli spiegazioni, andai a dirgli che, se voleva, poteva lasciargli anche il fischietto. Ne approfittai per suggerire a Cruyff di tenere per sé quel pallone e di darcene un altro, visto che in quella partita avevamo qualche diritto anche noi. Mi guardò con una certa aria misericordevole e chiese come mi chiamavo. «Jorge Valdano» gli risposi. «E quanti anni hai?» continuò. E io, obbediente: «Ventuno». Fece una faccia che significava: chissà dove andremo a finire con questi giovani d'oggi, e dall'alto dei suoi gloriosi trent'anni mi mollò uno schiaffo dialettico: «Ragazzino, a ventun anni a Cruyff si dà del lei»." (p. 75)

"Presto o tardi, l'allenatore italiano avrà pietà del cavaliere solitario che schiera in avanti e gli metterà vicino qualcuno a fargli compagnia: un cane, un gatto, un canarino..." (p. 100)

"L'Uruguay è uno di quei paesi dove dovrebbero mettere delle porte di calcio alle frontiere. Al visitatore sarebbe chiaro che quel paese altro non è che un gran campo di football con l'aggiunta di alcune presenze accidentali: alberi, mucche, strade, edifici..." (p. 133)

"[...] quel fondo di fascismo che si annida dietro la "filosofia del risultato" è tipico di gente che divide il mondo in dominatori e dominati, in ricchi e poveri, in bianchi e neri, in vincitori e vinti." (p. 196)

Post scriptum

Vorrei che coloro che mi hanno insegnato a sognare sapessero che io continuo a farlo. E che non ho intenzione di smettere.

lunedì 3 ottobre 2016

LE COMPETENZE MOTORIE

Dal libro "I test di valutazione funzionale nel calcio" di Giulio Sergio Roi

"... la competenza motoria, infatti, non si identifica soltanto con una prestazione motoria o sportiva, ma coinvolge diversi fattori della persona e i reciproci rapporti tra questi fattori (Aubert, 1997). In altre parole, una competenza motoria esprime l'integrazione di conoscenze (il sapere), di abilità motorie (saper fare) e di comportamenti (saper essere), sulla base di capacità personali (Colella 2001 a e b). Di conseguenza, in ogni competenza motoria si distinguono e interagiscono tre dimensioni fondamentali e integrate che sono quella cognitiva, quella operativa e quella emotivo-affettiva. (...) Ne risulta che il giovane che gioca a calcio esprime un determinato livello di competenze personali, che sono il risultato dell'apprendimento motorio e della capacità di relazionarsi con gli altri e di trasferire ciò che si è appreso oltre il confine della palestra o del campo da gioco. La competenza pratica può essere espressa in senso debole o forte (Arnold, 2002). La competenza debole si riferisce a una persona capace di eseguire un'abilità motoria di un determinato livello di difficoltà , intenzionalmente e ripetutamente, ma senza avere la consapevolezza di ciò che fa e senza essere in grado di ricostruire il processo esecutivo. La competenza forte caratterizza la persona che non solo è in grado di eseguire l'abilità motoria intenzionalmente e con successo, ma che riesce anche a ripercorrere le tappe del processo compiuto, a individuare le ragioni del risultato ottenuto , a riconoscere gli eventuali errori ed è capace di stabilire confronti con esperienze e risultati precedenti. Secondo questa distinzione, riuscire unicamente a eseguire un compito motorio non è una condizione accettabile e condivisa per avere una competenza pratica. (Arnold, 2002; Colella, 2007)..."