giovedì 19 novembre 2015

Il mestiere più difficile? Quello del bambino


ARTICOLO DI CRISTIANO GATTI dal "Corriere della Sera" del 18-11-2015



"Sarebbe curioso conoscere con quali parole i genitori del derby mignon abbiano cercato, in queste sere, di spiegare ai bambini il mattatoio parigino. Probabilmente, molti di loro se la saranno cavata con il più recente dei sistemi educativi: a certe cose deve pensare la scuola. Come no: tocca agli insegnanti, che sono pagati per lavorare mezza giornata, piantare nei ragazzini il seme della tolleranza e del rispetto. Noi abbiamo altro da fare. E il poco tempo libero che resta lo dobbiamo per forza dedicare alle cose serie: danza, nuoto, soprattutto calcio. Se ci capita un buon esterno da serie A, messo nelle mani del procuratore giusto, siamo a posto, con i conti in banca e con il prestigio sociale. Poi si sa com’è la vita: può anche succedere che diventi medico o piastrellista, a quel punto bisogna farsene una ragione. L’importante è che non prenda brutte strade, diventando ladro, spacciatore o professore. Noi comunque facciamo di tutto per metterlo in guardia con i giusti valori: appesi alle reti dei campi sportivi, ogni fine settimana urliamo a squarciagola che cosa intendiamo davvero per sana educazione. L’allenatore bravo è quello che fa giocare sempre titolare la nostra creatura. Gli avversari da rispettare sono quelli che perdono sei a zero, tanto carini e simpatici, loro. L’arbitro? Quello è bravo se lascia correre quando entra duro il nostro arcangelo, se fischia quando il nostro Ronaldo sviene in area. Liberando la bestia, ne abbiamo comunque pure per lui, per il fenomeno di famiglia: «Ma cosa sono quei contrasti da macaco, mira alla caviglia, suorina». Afflitti e sgomenti, pagheremmo qualunque cifra per fargli una trasfusione della grinta che avevamo noi alla sua età, noi che come noto abbiamo giocato tutti nel Real Madrid, poi non siamo andati avanti perché in casa serviva una paga in più (dicevano così i nostri padri, per noi non è vero, ma viene bene comunque). È questa l’idea di sport — di vita — che diffondiamo nei nostri week end montessoriani. Poi, il lunedì, ci raccontiamo che il mestiere del genitore è il più difficile del mondo. Ma quando mai. Il più duro, oggigiorno, è quello del bambino."

"Torna al tuo paese!", razzismo in un Torino-Juventus Pulcini: genitori in ospedale

Dal sito http://www.goal.com/it/news/7078/cronaca/2015/11/16/17382342/torna-al-tuo-paese-razzismo-in-un-torino-juventus-pulcini



"In questi giorni si predica pace dopo i fatti di Parigi, ma per alcuni questo è stato soltanto il pretesto per alimentare il proprio odio razziale, anche nei confronti di un bambino di 10 anni che era andato a giocare la sua partita di pallone.

Quello che è successo durante e dopo una partita della categoria Pulcini tra Torino e Juventus ha dell'incredibile. Uno dei genitori ha iniziato a insultare dagli spalti un bambino di colore della squadra granata, con i classici riferimenti beceri sull'età e invitandolo a tornare nel proprio paese.

Al termine della partita il clima si fa sempre più teso e viene presa di mira la madre del bambino, di origine cubane: "Neg**a di merda extracomunitaria torna nel tuo paese", l'insulto di una delle altre mamme, se così si può definire, all'uscita dal campo.

Con l'aiuto di altri genitori viene riportata la calma, ma è nel parcheggio che si arriva al delirio. L'uomo che durante la partita aveva insultato il bambino torna alla carica e questa volta non si limita soltanto alle parole.

Insieme alla moglie e al cognato, tale S.B. (usiamo soltanto le iniziali perché è attualmente in corso una denuncia) aggredisce la coppia con calci e pugni: "Nel frattempo sopraggiungono delle altre persone - racconta la madre -  , che riescono a portare via i due aggressori, mentre noi rimanevamo a terra sanguinanti e doloranti".

Quella che doveva essere una giornata di festa si è trasformata in un incubo per un bambino e i suoi genitori, finiti in ospedale per colpa della stupidità umana."

giovedì 12 novembre 2015

Pasolini gioca ancora


Pier Paolo Pasolini, 40 anni dalla morte: il calcio e lo sport a ‘suo’ modo
di Domenico Occhipinti, tratto dalla rubrica "sport e miliardi" sul sito http://www.ilfattoquotidiano.it/




"Nessuna proiezione, convegno o commemorazione ufficiale sarebbe stata più in linea con quell’animo sportivo, votato principalmente al calcio, che Pier Paolo Pasolini alternava alle vesti di intellettuale. I calzoncini corti e un pallone che rotola su un campo di periferia sono l’immagine “alternativa” dell’altro Pasolini. Enzo Biagi in un’intervista su La Stampa del 4 gennaio del 1973 gli chiese: “Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?”. “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri” rispose PPP. A 40 anni dalla sua scomparsa (il 2 novembre 1975) il ricordo in un quadrangolare: a Roma al campo Fulvio Bernardini nel quartiere di Pietralata si sono sfidate la Pasoliniana (squadra formata dai veterani della Liberi Nantes), l’Osvaldo Soriano Fc (Nazionale Scrittori), il team Giornalisti italiani e l’Italianatori di Ninetto Davoli che ha schierato anche Matteo Garrone, Marco Risi ed Enzo Decaro. Agonismo e risultati finali a parte si giocava con indosso una maglia speciale, raffigurante il volto di Pier Paolo perché per tutti, “Pasolini gioca ancora”.


Fabio Capello che lo conobbe, sul finire degli anni ’60 ricorda che “giocava all’ala sinistra e aveva corsa, dribbling e un tiro poco potente ma sapeva trascinare gli altri, dentro e fuori dal campo, con la sua personalità”. Gli episodi del Pasolini calciatore sono innumerevoli e in questi giorni ripresi da tantissimi perché ricordo primordiale da lui stesso così sintetizzato: “I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”. Tifava per il Bologna, quello di Bulgarelli al quale non risparmiò le sue domande, forse indiscrete per il periodo, sulla sessualità. Sicuramente con la sua personalità incuteva un certo imbarazzo nei calciatori e certamente la presenza di intellettuali nei programmi sportivi non era sporadica.

Lo sport era un gesto nobile e questa nobiltà Pasolini la riconobbe non solo al calcio, infatti, nell’arco dei suoi 53 anni di vita si accostò a diverse discipline con abilità e attaccamento diverso. Il salto triplo e il lancio del disco ad esempio lo “ispirarono” nella scelta degli attori di Medea, con Maria Callas. Il bronzo di Messico ’68 Giuseppe Gentile diventa il Giasone, mentre un discobolo, Gianni Brandizzi, farà Ercole.


“Vado spesso a giocare a pallacanestro: sono schiappone, ma mi diverto molto. Lo sport è veramente la mia più pura, spontanea consolazione. Ora ho una voglia frenetica di andare a sciare: sogno le Dolomiti, come una terra alta, sopra le nubi, solatia, risonante di grida e di risa”, scriveva in una lettera del 1941. Il basket era una delle sue passioni universitarie ma fu messa in crisi da Ragazzi di vita, il primo romanzo romano, quando il Riccetto e il Caciotta lo definiscono una “pippa di gioco”. Non è finita, non poteva mancare il ciclismo: “Ora, indubbiamente, nel cielo ciclistico è sorta una nuova stella fissa: Merckx. I giornali italiani non vorranno mica combinarci lo scherzo di non farcela godere!”. La parabola del Cannibale la seguì quasi tutta Pasolini che in un Processo alla Tappa si presta alle domande incalzanti di Vittorio Adorni e usando il gergo ciclistico gli scatta in faccia ricordando le gesta di un corridore degli anni 40, a cavallo della guerra.

Severino Canavesi, era il suo “idolo” perché vinceva poco ed era un tipo controcorrente. Così, secondo me, controcorrente è stato Pasolini, questo Pasolini grandissimo intellettuale che invece di farsi incensare nei salotti preferiva mischiarsi al fango nei campetti di periferia, farsi dare della schiappa per tirare a canestro o essere sfidato dai corridori sulla competenza ciclistica. Luoghi, quelli dello sport, dove la cultura non albergava spesso, furono per lui fonte d’ispirazione e forse furono ispirati da lui. Se a quarant’anni di distanza se ne parla, ecco perché “Pasolini gioca ancora”."

mercoledì 11 novembre 2015

Il rigore più lungo del mondo


TRATTO DA "Pensare con i piedi", di Osvaldo Soriano

"Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto
di Valle de Rìo Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto. Estrella Polar era un
circolo con i biliardi e i tavolini per il gioco delle carte, un ritrovo da ubriachi lungo una strada
di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una squadra di calcio che partecipava al
campionato di Valle perché di domenica non c'era altro da fare e il vento portava con sé la
sabbia delle dune e il polline delle fattorie.
I giocatori erano sempre gli stessi, o i fratelli degli stessi. Quando avevo quindici
anni, loro ne avevano trenta e a me sembravano vecchissimi. Dìaz, il portiere, ne aveva

quasi quaranta e i capelli bianchi che gli ricadevano sulla fronte da indio arcuano. Alla coppa
partecipavano sedici squadre e l'Estrella Polar finiva sempre dopo il decimo posto. Cedo che
nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo e tornavano a casa cantando, con la maglia rossa
ben ripiegata nella borsa perché era l'unica che avessero. Nel 1958 avevano cominciato a
vincere per uno a zero con l'Escudo Cileno, un'altra squadra miseranda. Nessuno ci badò.
Invece, un mese dopo, quando avevano vinto quattro partite di seguito ed erano in testa al
torneo, nei dodici paesi di Valle si cominciò a parlare di loro.
Le vittorie erano state tutte per un solo goal, ma bastavano a far rimanere il Deportivo
Belgrano, l'eterno campione, la squadra di Padìn, di Constante Gauna e di Tata Cardiles, al
secondo posto, con un punto di distacco. Si parlava dell'Estrella Polar a scuola, sull'autobus,
in piazza, ma nessuno immaginava ancora che alla fine dell'autunno avrebbero avuto ventidue
punti contro i ventuno dei nostri.
I campi si riempivano per vederli finalmente perdere. Erano lenti come somari e pesanti
come armadi ma marcavano a uomo e gridavano come maiali quando non avevano la palla.
L'allenatore, uno vestito di nero, con baffetti sottili, un neo sulla fronte e mozzicone spento tra le
labbra, correva lungo la linea laterale e li incitava con una verga di vimini quando gli passavano
vicino. Il pubblico ci si divertiva e noi, che giocavamo di sabato perché eravamo più piccoli, non
riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se giocavano così male.
Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale entusiasmo che dovevano
appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l'uno a zero
e porgeva loro bottiglie di vino rinfrescate sotto la terra umida. La sera facevano festa nel
postribolo di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava perché mangiavano le poche cose che
conservava nella ghiacciaia.
Erano diventati l'attrazione del paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei
bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti li omaggiavano
di qualche giocattolo e di caramelle per i bambini e al cinema le ragazze Il accettavano carezze
al di sopra delle ginocchia. Fuori dal paese, nessuno li prendeva sul serio, neppure quando
avevano vinto con l'Atletico San Martìn per due a uno. Nel pieno dell'euforia furono sconfitti
come tutti quanti a Barda del Medio e sul finire dell'andata persero il primo posto quando il
Deportivo Belgrano li sistemò con sette goal. Tutti credemmo, allora, che la normalità fosse
stata ristabilita.
Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e continuarono nella loro litania di
laboriose, orrende vittorie e arrivarono alla primavera con un solo punto in meno rispetto al
campione.
L'ultimo scontro divenne storico a causa del rigore. Lo stadio era tutto esaurito e lo erano
anche i tetti delle case vicine e il paese intero aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando
in casa, replicasse almeno i sette goal dell'andata. Il giorno era fresco e assolato e le mele
cominciavano a colorirsi sugli alberi. L'Estrella Polar aveva portato oltre cinquecento tifosi che presero d'assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar fuori gli idranti per farli stare calmi.
L'arbitro che fischiò il rigore era Herminio Silva, un epilettico che vendeva biglietti
della lotteria nel circolo locale e tutti quanti capirono che si stava giocando il lavoro quando al
quarantesimo del secondo tempo si era ancora sull'uno a uno e non aveva fischiato la massima
punizione, anche se quelli del Deportivo Belgrano entravano a tuffo nell'area dell'Estrella
Polar e facevano capriole e salti mortali per impressionarli. Sul pareggio la squadra locale era
campione e Herminio Silva voleva conservare il rispetto di sé e non concedeva il rigore perché
non c'era fallo.
Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca aperta quando la mezz'ala sinistra
dell'Estrella Polar infilò una punizione da molto lontano e portò la squadra ospite sul due a uno.
Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò la partita fino a quando Padìn entrò
in area e appena gli si avvicinò un difensore fischiò. Fece uscire dal fischietto un suono stridulo,
imponente e indicò il punto del rigore. All'epoca, il luogo dell'esecuzione non era indicato con il
dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno
a raccogliere il pallone perché l'ala destra dell'Estrella Polar, Rivero, detto el Colo, lo stese con
un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la sera e non ci fu modo di sgomberare
il campo né di risvegliare Herminio Silva. Il Commissario, con una lanterna accesa, sospese
la partita e diede ordine di sparare in aria. Quella sera il comando militare decretò lo stato di
emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti
quelli che non sembravano del posto.
Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il martedì seguente, si dovevano
giocare ancora venti secondi a partire dall'esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato
tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Dìaz in porta, avrebbe avuto luogo la domenica
dopo, ullo stesso campo, a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana ed è, se
nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia.
Mercoledì marinammo la scuola e andammo nel paese vicino a curiosare. Il circolo
era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo, tra le dune. Avevano formato una lunga
fila per battere i rigori contro el Gato Dìaz e l'allenatore con il vestito nero e il neo sulla fronte
cercava di spiegare loro che quello non era il modo migliore di mettere alla prova il portiere.
Alla fine, tutti tirarono il loro rigore e el Gato ne parò parecchi perché li battevano con ciabatte
e scarpe da passeggio. Un soldato bassino, taciturno, che stava in fila, sparò un tiro con la
punta dell'anfibio militare che quasi sradica la rete. Sul far della sera tornarono in paese,
aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Dìaz rimase tuta la sera senza parlare, gettando
all'indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s'infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
- Constante li tira a destra.
- Sempre, -disse il presidente della squadra.
- Ma lui sa che io so.
- Allora siamo fottuti.
- Sì, ma io so che lui sa, - disse el Gato.
- Allora buttati subito a sinistra, - disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
- No. Lui sa che io so che lui sa, - disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire.
- El Gato è sempre più strano, - disse il presidente della squadra nel vederlo uscire pensieroso,
camminando piano.
Martedì non andò all'allenamento e nemmeno mercoledì. Giovedì, quando lo trovarono che
camminava sui binari del treno, parlava da solo e lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
- Lo pari? - gli domandò, ansioso, il garzone del ciclista.
- Non lo so. Che cosa cambia, per me? - domandò.
- Che ci consacriamo tutti, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgrano.
- Io mi consacro quando la rubia Ferriera mi dirà che mi vuole bene, - disse e fischiò al cane per
tornarsene a casa.
Venerdì la rubia Ferreira badava come sempre alla merceria quando il sindaco entrò con unmazzo di fiori e con un sorriso largo quanto un'anguria aperta.
- Questi te li manda el Gato Dìaz e fino a giovedì tu devi dire che è il tuo fidanzato.
- Poveretto, - disse la donna con una smorfia e nemmeno li guardò, quei fiori che erano arrivati
da Neuquén con l'autobus delle dieci e mezza.
La sera andarono al cinema insieme. Nell'intervallo, el Gato uscì nell'atrio per fumare e la
rubia Ferreira rimase sola nella penombra, con la borsa sulla gonna, a leggere cento volte il
programma senza alzare lo sguardo.
Sabato pomeriggio el Gato Dìaz chiese in prestito due biciclette e andarono a fare una
passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la
faccia e disse che forse gliel'avrebbe permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
- E io come faccio a saperlo? - disse lui.
- A sapere cosa?
- Se ridevo buttare da quella parte.
La rubia Ferreira lo prese per mano e lo portò fino al posto in cui avevano lasciato le biciclette.
- In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato, -disse lei.
- E se non lo paro? - domando el Gato.
- Allora vuol dire che non mi vuoi bene, -rispose la rubia, e tornarono in paese.
La domenica del rigore partirono dal circolo venti camion carichi di gente, ma la polizia li
bloccò all'ingresso del paese e dovettero fermarsi accanto alla strada, ad aspettare sotto il sole.
A quei tempi e in quel posto non c'erano né televisori né stazioni radio né qualche altro mezzo
per seguire cosa succedeva su un campo chiuso, così quelli dell'Estrella Polar predisposero
una specie di staffetta tra lo stadio e la strada.
Il garzone del ciclista salì su un tetto da dove si vedeva la porta di Gato Dìaz e da lì avrebbe
raccontato quello che vedeva a un altro ragazzo che stava sul marciapiede e che a sua volta
lo avrebbe riferito a un altro che stava a venti metri e così via finché ogni particolare sarebbe
arrivato al punto in cui aspettavano i tifosi dell'Estrella Polar.
Alle tre del pomeriggio le due squadre scesero in campo vestite come se dovessero
giocare una vera partita. Herminio Silva aveva la divisa nera, scolorita ma in ordine quando
tutti furono schierati a centrocampo andò dritto verso el Colo Rivero che gli aveva dato il pugno
la domenica prima e lo espulse. Non era ancora stato inventato il cartellino rosso e Herminio
indicava la bocca del tunnel con mano ferma da cui pendeva il fischietto. Alla fine, la polizia
portò via a spintoni el Colo che sarebbe voluto rimanere a vedere il rigore. Allora l'arbitro andò
fino alla porta con la palla stretta contro un fianco, contò dodici passi e la sistemò a terra.
El Gato Dìaz si era pettinato con la brillantina e la testa gli risplendeva come una pentola di
alluminio.
Noi lo osservavamo appoggiati contro il muretto che circondava il campo, proprio dietro
la porta, e quando si dispose sulla riga di calce e prese a strofinarsi le mani nude cominciammo
a scommettere su quale lato avrebbe scelto Constante Gauna.
Lungo la strada avevano interrotto la circolazione e tutti aspettavano quell'istante perché erano
dieci anni che il Deportivo Belgrano non perdeva una coppa né un campionato. Anche i poliziotti
volevano sapere, e così lasciarono che la catena di staffette si dislocasse lungo tre chilometri e
le notizie correvano di bocca ritmate dalle contrazioni del fiatone.
Alle tre e mezza, quando Herminio Silva ebbe ottenuto che i dirigenti delle due squadre,
gli allenatori e le forze vive del popolo abbandonassero il campo, Constante Gauna si avvicinò
per sistemare la palla. Era magro e muscoloso e aveva le sopracciglia tanto folte che la faccia
ne sembrava tagliata in due. Aveva tirato tante volte quel rigore - raccontò poi - che lo avrebbe
rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o addormentato.
Alle quattro meno un quarto, Herminio Silva si dispose a metà strada tra la porta e il
pallone, portò il fischietto alla bocca e soffiò con tutte le sue forze. Era così nervoso e il sole gli
aveva tanto martellato sulla nuca che quando il pallone partì in direzione della porta sentì gli
occhi rovesciarglisi all'indietro e cadde di spalle schiumando dalla bocca. Dìaz fece un passo inavanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando su se stesso verso il centro della porta e
Constante Gauna indovinò subito che le gambe del Gato Dìaz sarebbero riuscite a deviarlo di
lato. El Gato pensò al ballo della sera, alla gloria tardiva, al fatto che qualcuno sarebbe dovuto
accorrere per mettere in corner il pallone che era rimasto a rotolare in area.
El petiso Mirabelli arrivò per primo e la mise fuori, contro la rete metallica, ma Herminio Silva
non poteva vederlo perché stava a terra, si rotolava in preda a un attacco di epilessia. Quando
tutta l'Estrella Polar si rovesciò sopra al Gato Dìaz per festeggiare, il guardalinee corse verso
Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su cui eravamo seduti lo sentimmo
gridare : "Non vale! Non vale!"
La notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta del Gato e lo svenimento dell'arbitro. A
quel punto sulla strada tutti aprirono damigiane di vino e cominciarono a festeggiare, sebbene
il "non vale" continuasse ad arrivare balbettato dai messaggeri con una smorfia attonita.
Fino a quando Herminio Silva non si fu rimesso in piedi, sconvolto dall'attacco, non arrivò
la risposta definitiva. Come prima cosa volle sapere "che è successo" e quando glielo
raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare di nuovo perché lui non era stato
presente e il regolamento prescrive che la partita non si possa giocare con un arbitro svenuto.
Allora el Gato Dìaz allontanò quelli che volevano pestare il venditore di biglietti della lotteria al
Deportivo Belgrano e disse che bisognava sbrigarsi perché la sera aveva un appuntamento e
una promessa e andò di nuovo a mettersi in porta.
Constante Gauna non doveva avere molta fiducia in se stesso perché propose a Padìn di tirare
e solo dopo andò vero la palla mentre il guardalinee aiutava Herminio a stare in piedi. Fuori si
sentivano strombazzamenti festosi dei tifosi del Deportivo Belgrano e i giocatori dell'Estrella
Polar cominciarono a ritirarsi dal campo circondati dalla polizia.
Il tiro arrivò a sinistra e el Gato Dìaz si buttò nella stessa direzione con un'eleganza e
una sicurezza che non mostrò mai più. Constante Gauna alzò gli occhi al cielo e cominciò a
piangere. Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino Dìaz, il vecchio, che
rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse estratto la pallina vincente alla lotteria.
Due anni dopo, quando el Gato era ormai un rudere e io ero un giovanotto insolente, me lo
trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e lo vidi immenso, rannicchiato sulla punta
dei piedi, con le dita aperte e lunghe. Aveva al dito una fede che non era della rubia ma della
sorella del Colo Rivero, india e vecchia come lui. Evitai di guardarlo negli occhi e cambiai piede;
poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non l'avrebbe parato perché era molto rigido e portava il
peso della gloria.
Quando andai a prendere il pallone nella porta, si stava rialzando come un cane bastonato.
Bene, ragazzo - mi disse. - Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai
segnato un goal a Gato Dìaz, ma nessuno ti crederà."

Grazie a L.B.

lunedì 2 novembre 2015

Mario Sconcerti: troppe scuole di calcio senza buoni insegnanti, così si perdono i talenti


Articolo preso da: http://www.ivg.it/2015/11/mario-sconcerti-troppe-scuole-di-calcio-senza-buoni-insegnanti-cosi-si-perdono-i-talenti/




"Savona. Si è svolta recentemente a San Benedetto del Tronto la presentazione de “La storia del gol”, il nuovo libro del famoso giornalista fiorentino Mario Sconcerti che racconta l’evoluzione del calcio attraverso varie epoche.

Un’occasione in cui il volto noto di Sky, nonchè storica firma del Corriere della Sera, ha espresso alcune riflessioni anche sul calcio giovanile, non risparmiando critiche ai vivai: “Le scuole calcio hanno rovinato questo gioco. Si paga per far giocare i bambini. Il calcio è libertà, la selezione deve essere libera, naturale. Giocano i migliori. Non esiste che si debba giocare gli stessi minuti di un altro ragazzo perché si paga una retta“.

Un pensiero critico già espresso in precedenza ai microfoni di varie enittenti: “Ottimi scout in circolazione ce ne sono ancora – dichiarava Sconcerti – lo stesso non credo possa dirsi per la ‘costruzione’ dei baby-calciatori. È lì che siamo deboli. Lo sa quante scuole calcio abbiamo in Italia? Circa 7000 distribuite su tutto il territorio. Se conti che ognuna di esse si avvale di almeno 8-10 tecnici, ci ritroviamo con circa 70mila allenatori a cui affidare le cure dei nostri figli. Ecco, il punto è: chi sono questi famosi 70mila educatori? Chi gli ha insegnato l’ABC per quel che riguarda l’approccio al football? Io non lo so, ma mi dicono che basti un corso di soli tre giorni per andare a lavorare in uno di questi istituti sportivi. Un fenomeno che, come avrà intuito, non amo particolarmente. Pagare per giocare? Mah…“.

Parole mai banali quelle dell’acuto cronista toscano che sembrano destinate ad aprire un nuovo dibattito nel mondo del calcio giovanile, compreso naturalmente anche quello provinciale savonese. “E’ strano – rincara la dose Sconcerti –  che in un paese di 60 milioni di persone di cui almeno una decina giocano a calcio a vari titoli, si faccia fatica a trovare giovani di talento. È molto più probabile l’ opposto, che i giovani ci siano, siano anche molti, ma sia sbagliato il modo in cui li si guarda, i criteri con cui li si giudica. In sostanza è probabile non manchino i giovani di qualità, ma chi deve trovarli e istruirli. La vera crisi è degli insegnanti : manca in definitiva che sappia far crescere i talenti. Fino a pochi anni fa il calcio era quasi per autodidatti. Si giocava nelle strade, negli oratori, nei prati, si giocava dovunque perché lo spazio era quasi dovunque. Il calcio non era uno sport, era il modo di passare la giornata fuori dalla scuola. I ragazzi crescevano in qualità semplicemente guardando le qualità del compagno. Erano i primi a capirne la diversità. E giocavano per ore e ore imparando a fare tutti i ruoli. Molte volte le voci sulla bravura dei migliori rimbalzavano di quartiere in quartiere. Alla fine arrivava un osservatore fatiscente che li portava in qualche società di periferia, dove andavano poi a loro volta a cercare le squadre più importanti. Era una selezione per gradi, naturale ma complessa, che portava agli insegnanti giocatori da rifinire, non da impostare. E i migliori maestri di calcio erano conosciuti e rispettati in città come grandi vecchi, la cui competenza non portava comunque mai ricchezza”.
“Non era il tempo dell’oro, era solo un altro tempo – spiega -. Ma quando i ragazzi sono usciti dalla strada e sono entrati nelle scuole calcio, sono cominciati i problemi. Il calcio ha diminuito il divertimento, è diventato un confronto a pagamento. Oggi i bambini non giocano a calcio se non pagano la retta a una scuola. Ma il problema più grande è stato trovare i professori per queste scuole. È nato un vero e proprio nuovo mestiere. In Italia ci sono oggi circa 7mila scuole calcio, ognuna ha una decina di insegnanti. Fanno circa 70mila insegnanti specializzati, senza contare tutto il sottobosco e le scuole un po’ più arrangiate. Chi li ha specializzati? Che titoli hanno loro e che titoli avevano i loro insegnanti ammesso ci siano stati? Un ragazzo a 14 anni è già pieno dei difetti e delle qualità che si porterà dietro tutta la vita. Per il calcio è un ometto. È prima che viene costruito il giocatore. E prima di quella età si cade in questa specie di niente indifferenziato. La soluzione non sta nel demonizzare le scuole calcio, sta nel dare una istruzione forte agli insegnanti. Quindi nel creare scuole per chi insegna nelle scuole. È molto difficile, ma il fatto che sia difficile non significa se ne possa fare a meno. Cattivi insegnanti costruiscono cattive generazioni. Chi deve fare questa prima grande operazione didattica? Non può che toccare a Coverciano, al Settore tecnico. Che da molto tempo si dedica all’ istruzione di vertice e favorisce soltanto gli ex calciatori importanti. Eppure i giovani sono come l’ erba, se l’annaffi cresce sempre. Ed è evidente che oggi il problema è di tecnica di base. Anche in serie A sono arrivate generazioni di giovani che hanno problemi con i fondamentali del calcio, lo stop, il controllo, lo sguardo d’ insieme. È abbastanza assurdo che si preferisca dar la colpa alle madri italiane piuttosto che prendere atto dell’ anarchia e del dilettantismo in cui è caduto da anni l’ insegnamento del calcio. Gli stranieri nel nostro campionato aumentano da tre anni al ritmo del 5.1% ogni stagione. È troppo, ma non troppo sbagliato se i giovani italiani non sono all’ altezza. Andare a comprare all’ estero significa poter scegliere tra tutto il mondo. In Italia i giovani che dalla Primavera riescono a salire in A non sono più di 4-5 a stagione. E solo uno farà forse il titolare. Nessuno è per principio contro i giocatori italiani. È il prodotto che offrono a non essere più all’ altezza. In questo buio si sono persi anche straordinari tesori di competenza che permettevano a poche decine di artigiani di capire prima di tutti le doti di campione chiuse dentro un ragazzo. Chi sa fare scouting oggi? Chi sa come si riconosce un campione? Chi è in grado di insegnarlo agli altri? E dove, in quale luogo deputato? C’ è qualcuno che lo fa in Italia? No, eppure si tratta della cosa più importante, la prima. L’ errore è pensare che il calcio sia uno solo, quello di vertice, quello di chi paga di più e può permettersi di saltare ogni ostacolo. Non è così. Il calcio ha bisogno di tutto, è prima di tutto piccola vita che esige da subito rispetto e professionalità. Se non dai qualità ai giovani non avrai indietro nemmeno quella che hanno dentro”.