venerdì 16 maggio 2014

E se un premio per tutti fosse la radice dei nostri mali?

Articolo di Michele Farina
Preso da:
http://27esimaora.corriere.it/articolo/e-se-un-premio-per-tuttifosse-la-radice-dei-nostri-mali/



Oibò, i bambini viziati e coccolati crescono più sicuri, quelli che “ottengono” solo quando lo meritano diventeranno adulti fragili. Lo dice Alfie Kohn, guru dell’”educazione dolce”. A sentir lui, in America impera la pedagogia opposta alla sua. Liberal o conservatori, di destra o di sinistra, quando si parla di figli tutti si schierano sotto la bandiera del “sacrificio beneficio”. Per crescere bisogna soffire, sudare: viva la grintosa meritocrazia di un tempo, abbasso il permessivismo mollaccione e iper-protettivo dei nostri giorni. Pochi, dice Kohn nel suo ultimo libro "Il mito del bambino viziato", osano mettere in discussione, appunto, il mito: che i bambini di oggi vivono nella bambagia e ottengono tutto “troppo” facilmente. Si sa, i luoghi comuni non accendono la fantasia. Non esistono più le mezze stagioni, i bambini di oggi sono viziati… Parole. Ma qui sono in gioco cose più concrete: coppe, medaglie, coccarde. In America c’è un movimento che si batte per eliminare dalle garette dei piccoli il comandamento «un premio a chi partecipa». Quando l’ho letto, d’istinto ho pensato di chiamare l’Unicef, Human Rights Watch, il Papa.
E se invece avessero ragione loro: se fosse il principio “un premio per tutti” la radice dei nostri mali?
Il principio è vecchio: l’importante è partecipare. Un premio per tutti vuol dire questo: un riconoscimento al cimento. Bravo, ci hai provato. Sarà pure un astuto scudo usato dagli adulti che non vogliono sorbirsi il muso dei pargoli che tornano a casa senza uno straccio di medaglietta. Sarà anche una misura di ordine pubblico, un modo per evitare che i genitori hooligans facciano a botte a bordo campo.
Ma oggi, scrive Kohn sul New York Times, è in voga il principio opposto.Lacrime e grinta. Solo in America? Anche in Italia? Se non li esponi alle esperienze negative già da piccoli, arriveranno impreparati alle “inevitabili” sconfitte della vita “vera”. Se dimostri di amarli e considerarli indipendentemente dal loro comportamento cresceranno tronfi e scansafatiche nella convinzione che tutto è dovuto”.
Nessuno però ha dimostrato, sostiene Kohn, che il dogma della “stima condizionata” (ti apprezzo a condizione che) li faccia crescere più forti. Anzi. Kohn cita una serie di ricercatori (Avi Assor, Guy Roth e altri) che nell’ultimo decennio hanno provato il contrario. Quando i figli sentono che la stima dei genitori varia a seconda del loro comportamento e dei loro risultati (a scuola, in società etc) l’effetto non è quello desiderato: la risultante autostima è un colabrodo, fragile e instabile. Per crescere bene è utile avere un’alta considerazone di sè, ma quella che conta davvero, secondo Kohn, è “l’autostima incondizionata”, ovvero la granitica certezza «che tu vali sempre, anche quando fallisci». Ok, e come coltivi il seme di questo santo Graal dell’”autostima incondizionata”?
Appunto: non mettendo condizioni. Questo vuol dire non mettere paletti? Come si instilla allora il principio della responsabilità (se non del merito)? Aiuto, mi sono perso. Sono d’accordo: sbaglia la tribù dei genitori americani che vuole togliere lo scalpo (il premio) ai bambini perdenti. Ma poi esiste, questa tribù, in Italia? Non sarà che noi mediamente soffriamo del dogma opposto a quello attaccato da Kohn? Ce lo diciamo tutti: il nostro tarlo non è tanto la competitività ma la sua variante truccata. Come diceva quella vecchia battuta: «Certo che in Italia c’è la meritocrazia. Chi merita, fuori dalle scatole».
Come si riflette, questo vizio degli adulti, nella corsa dei bambini?




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